L’evento di Annie Ernaux è un colpo al cuore, ma anche alla Storia, che vorrebbe lasciare nell’oblio generazioni di donne che si sono trovate a fare una scelta durissima. È un libro doloroso da leggere, ma non tanto quanto dev’essere stato doloroso scriverlo. Eppure la Ernaux ha capito che era importante scrivere questa storia, perché sapere è il primo passo per migliorare.
Agire nell’illegalità
Nel 1963 in Francia l’aborto era illegale. Cosa può dunque fare una ragazza di 23 anni che si ritrova incinta? La sola parola aborto è impronunciabile, c’è un clima di oppressione e illegalità intorno a questo argomento. A volerne parlare coi medici si ricevono sguardi torvi e caldi incoraggiamenti a non sfiorare nemmeno l’argomento. Nella migliore delle ipotesi. Nella peggiore, minacce di denuncia, lavaggi del cervello o rifiuti a continuare a seguire la paziente⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀
L’unica via è quella clandestina: qualcuna ci prova da sola, altre si rivolgono a una mammana. In entrambi i casi, non si può mai sapere come vada a finire. Il processo è doloroso e pericoloso. Si rischia la vita. Ma a volte non c’è scelta.
L’evento⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀
Annie Ernaux ripercorre una tappa dolorosa della sua vita e lo fa in modo così autentico da farci entrare in ogni sua sensazione. Spaesamento, apatia, dubbio, disperazione si alternano nella mente e nel cuore di una ragazza troppo giovane e sola. I medici non sono d’aiuto e i rischi sono altissimi. Ma a volte non c’è scelta, anche se questo significa rischiare di stare tra la vita e la morte. Questo è l’evento.
Il mio cuore di lettrice si è fermato più volte nel corso della lettura, le parole della Ernaux entrano in profondità e si incidono nelle pareti del cuore. Mi sono chiesta spesso cosa avrei fatto io al suo posto. Come mi sarei sentita a non avere nessuno a cui rivolgermi? Nessuna protezione, nessun aiuto, nessuna mano amica? Circondata da dogmi e facili giudizi. Quanto coraggio ci vuole a rischiare la vita per un diritto negato?
Ombra e oblio
Questo libro è così vero che fa male, una testimonianza che dà voce a tutte quelle ragazze che sono state lasciate sole, nell’ombra e nell’oblio da uno stato che non ha saputo proteggerle, da una legge che ha tanto tardato ad arrivare anche da noi in Italia. Ragazze a volte sopravvissute per miracolo e che comunque porteranno sempre dentro il peso di questa esperienza.
Annie Ernaux ha avuto il coraggio di tornare con la memoria a quei giorni che l’hanno profondamente cambiata e a restituire alla storia i risultati delle sue mancanze, dei ritardi, delle dimenticanze. Perché a rimetterci è sempre qualcuno che non lo merita e L’evento è qui a ricordarcelo.
Le otto montagne è un romanzo che parla di montagna, ma anche di amicizia, di fatica, ma anche di crescita, di natura, ma anche di famiglia. Insieme a Pietro e Bruno ci innamoriamo della montagna, ma ci chiediamo anche se possiamo fare qualcosa di più per mantenere vive e sane le nostre relazioni.
Pietro e Bruno
Pietro e Bruno sono amici. Sono molto diversi, ma sotto certi aspetti molto simili. Pietro è cresciuto in città, ma i genitori lo portavano in montagna ogni estate. Bruno è cresciuto in montagna e la montagna ce l’ha dentro. Si incontrano da ragazzini nel luogo dove la famiglia di Pietro va in vacanza, Grana. Grana è un piccolo paesino che nulla ha delle classiche mete turistiche: è piccolo, poco abitato, non ci sono strutture di accoglienza, solo la ruvida montagna. Ed è proprio per questo che il padre di Pietro lo ama.
Attraverso le camminate col padre, Pietro capisce che la montagna non è solo un paesaggio, ma un modo di vivere e fa di tutto per compiacere il padre, che la montagna la vive con l’ambizione di arrivare in alto, senza voltarsi indietro, senza ammirare il panorama, respirando l’aria buona, ma agognando la cima. Tanta è l’ambizione verso la cima, che non presta attenzione al figlio, non si accorge se sta male o se fa fatica. Agogna la cima, tutto il resto non sembra contare.
Rapporti difficili
È difficile il rapporto tra Pietro e suo padre, lui si sente un figlio inadatto, non è un camminatore veloce, non apprezza la montagna quanto il padre, soffre nella salita. Sente di dover continuamente rimediare a delle colpe. Bruno invece è perfetto per la montagna, si integra perfettamente con la visione del padre di Pietro. E questo a volte lo ferisce. Bruno e il padre salgono l’uno accanto all’altro, mentre lui resta indietro con il mal di montagna, agognando una sosta.
È un rapporto altalenante e non sempre facile anche quello tra Pietro e Bruno, fatto di avvicinamenti e allontanamenti, di molto fare e poco parlare, con sullo sfondo una montagna che a volte è dura e spietata.
Entrambi scappano da qualcosa, a volte anche l’uno dall’altro, ma si cercano, fino alla fine si cercano. Non sanno stare vicini, ma non riescono nemmeno a stare lontani.
C’era qualcosa di assoluto, in Bruno, che mi aveva sempre affascinato. Qualcosa di integro e puro che fin da quando eravamo ragazzini ammiravo in lui. E lì per lì, nella casetta che avevamo costruito, ero quasi disposto a credere che avesse ragione: che il modo giusto di vivere per lui fosse quello, da solo nel pieno dell’inverno, senza niente se non un po’ di cibo, le sue mani e i suoi pensieri, anche se sarebbe stato disumano per chiunque altro.
Le otto montagne
La montagna è una protagonista indiscussa di questo romanzo e nelle sue descrizioni Cognetti raggiunge picchi molto elevati.
Noi diciamo che al centro del mondo c’è un monte altissimo, il Sumeru. Intorno al Sumeru ci sono otto montagne e otto mari. Questo è il mondo per noi. E diciamo: avrà imparato di più chi ha fatto il giro delle otto montagne, o chi è arrivato in cima al monte Sumeru?
Per quanto riguarda i personaggi e le loro relazioni tutto è sempre molto sfuggente, la scrittura è apparentemente semplice, ma in realtà è diretta e affilata, ritaglia contorni, scava canali, ma non troppo a fondo, perché anche il lettore ci deve mettere del suo e leggere tra le righe di rapporti frastagliati, a volte appuntiti, dolorosi, ma pur sempre veri. Cognetti ci chiede di essere parte integrante della sua storia, interrogandoci su quei rapporti, su cosa potrebbe significare un evento per quell’amicizia o per quella relazione, su come ha inciso l’ambiente sulle relazioni.
La simmetria dei desideri è un libro che sorprende e conquista con la sua profondità nella semplicità apparente e con la sua ricchezza di passioni e sentimenti umani.
Quattro amici
Yuval, Amichai, Ofir e Churchill sono amici dai tempi della scuola, hanno condiviso molte cose insieme e il loro legame si è rafforzato. Il legame che li unisce è intenso e nella loro diversità si compensano e compenetrano e vivono insieme gioie, dolori,, speranze e desideri.
Durante la finale dei mondiali di calcio del 1998 i quattro amici decidono di affidare a dei bigliettini i loro sogni e i loro desideri, per poi riaprire quegli stessi bigliettini quattro anni dopo e verificare se i desideri si sono avverati.
Yuval
Yuval è il narratore, un ragazzo schivo e introverso, se ne sta spesso in disparte e sembra a volte lasciarsi trasportare dagli eventi senza quasi reagire, come se la sua educazione anglosassone gli impedisse di andare oltre, di superare un argine immaginario all’interno del quale è costretto. Mail suo animo è buono ed è una presenza placida e costante nel gruppo.
Churchill
Churchill è l’anima del gruppo, colui che l’ha fondato e colui al quale tutti sembrano fare riferimento. Forte, spigliato e disinvolto, a volte un po’ sbruffone e pieno di sé è quello che trascina il gruppo. Sembra voler spaccare il mondo e tutte lo vogliono, ma dentro cela un animo irrequieto che viene piano piano roso dal dubbio e intaccato dalle vicende della vita.
Ofir
Ofir è un creativo bloccato in un lavoro da pubblicitario, con le parole ha talento, ma ogni giorno che passa si chiede se quello che sta facendo sia etico e se non ci sia un altro modo di vivere. I suoi ricci neri sono una presenza costante delle loro serate e nel corso della storia ci rivelerà un animo nobile e altruista.
Che fortuna esserci l’uno per l’altro, non vi rendete conto di che fortuna abbiamo.
Amichai
Amichai è un animo dolce e sensibile, allegro e vitale. Del gruppo, è quello che ha sempre un’idea nuova, qualcosa da fare o da provare. Sarà forse perché il suo lavoro non gli regala molte emozioni. È sua l’idea dei bigliettini durante i mondiali ed è quello che del gruppo che si è sposato presto e ha due bambini.
Si soffre insieme, si gioisce insieme
I quatto amici passano insieme attraverso momenti di serenità e spensieratezza, ma anche di difficoltà e dolore. Fanno insieme il periodo di leva obbligatorio e sono insieme anche quando macigni pesanti si abbattono su qualcuno di loro. Sembra che tutto quello che sanno fare insieme sia guardare le partite di calcio e andare ai concerti del loro gruppo preferito, ma la verità è che insieme crescono ed evolvono, in una sorta di romanzo di formazione in cui i momenti salienti sembrano essere segnalati da episodi all’apparenza leggeri e senza peso.
Leggerezza e profondità
Con una leggerezza solo apparente, Nevo ci porta in un viaggio in cui siamo noi a dover interpretare ciò che succede, a dare un senso profondo a ciò che lui ci presenta con una leggerezza disarmante. Riesce a trattare temi profondissimi, come quello dei territori occupati, con una delicatezza che spiazza. Sceglie episodi che possono sembrare quotidiani, quasi banali, ma che celano grandi profondità. Questo è il compito del lettore, far propria la profondità dei temi affrontati da questo scrittore di grande talento e farsi trasportare completamente nel suo mondo
Quando abbiamo smesso di capire il mondo è un libro imperdibile, uno di quei libri che, dopo aver chiuso l’ultima pagina, ti lasciano con un grande wow, ma anche con un certo senso di sconcerto.
Si tratta di un insieme di racconti, fatti e curiosità sui personaggi fondamentali della scienza moderna. Fin qua, niente di speciale, penserete. Invece si tratta di qualcosa di straordinario, le maggiori scoperte scientifiche dell’era moderna raccontate attraverso storie vere, aneddoti e curiosità sugli illustri scienziati che hanno deciso la via che la scienza moderna avrebbe percorso.
Dall’invenzione del blu di Prussia, alla scoperta del cianuro sintetico, dalla singolarità di Schwarzschild alla meccanica quantistica di Heisenberg. Incontriamo in questo saggio-romanzo personaggi geniali e le loro particolarità.⠀
Cianuro e arsenico
A chi verrebbe da pensare che dietro uno tra i più belli fra i colori si celasse uno tra i più letali veleni?
come se la struttura chimica del colore portasse in eredità la violenza, l’ombra, la macchia originaria degli esperimenti dell’alchimista che faceva a pezzi animali vivi, assemblava i loro resti in orribili chimere e tentava di rianimarli con scariche elettriche.
Grandi scienziati
A rendere prezioso questo libro sono anche le storie di grandi scienziati come Turing, Schwarzschild, Grothendieck, Heisenberg, Schrödinger, storie che non evidenziano solo gli onori delle loro grandi scoperte, ma anche e soprattutto i risvolti tragici e i momenti difficili che hanno portato grandi menti sull’orlo della pazzia o del suicidio.
Ogni nuovo progresso nei calcoli lo allontanava un po’ di più dal mondo reale. Il suo ragionamento si faceva tanto più oscuro quanto più si complicavano le operazioni delle sue matrici⠀
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Quando abbiamo smesso di capire il mondo?
Questo testo è davvero un piccolo tesoro per qualunque lettore sia curioso e assetato di conoscenza ed è scritto talmente bene che si legge senza fatica. Labatut riesce a rendere semplici anche concetti complicati e ci lascia con una domanda implacabile: quando abbiamo smesso di capire il mondo?
Mi dica quando ha avuto inizio tutta questa follia professore. Quand’è che abbiamo smesso di capire il mondo?
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La famiglia Karnowski è una saga famigliare di quelle che non si dimenticano, con protagonisti fortemente caratterizzati e uno stile sicuro e diretto. Uno di quei libri che non ti penti di aver letto.
David Karnowski
Capostipite della famiglia Karnowski, David è un intellettuale, raffinato purista della grammatica ebraica a cui sta stretta la mentalità ebraica di Melniz, piccola cittadina polacca in cui vive con la moglie Lea. David è testardo e provocatore e ciò gli provoca una disputa con il rabbino, che gli attira le antipatie degli intellettuali del posto e lo fa decidere di emigrare.
Berlino rappresenta la cultura, la sapienza, la nobiltà e la luce, e lì la sua cultura e le sue buone maniere si sentono perfettamente a loro agio. David trova qui il suo posto nel mondo e può esprimersi al meglio venendo stimato a apprezzato. Si sente superiore perché intellettuale e ottiene sempre ciò che vuole.
Preferisce dimenticare gli anni trascorsi oltre frontiera, cancellarli dalla memoria, e stare lontano dagli altri immigrati […]. Erano dei pezzenti privi d’istruzione, e Karnowski, l’erudito rampollo di una famiglia in vista, non si mescolava con gente del genere.
Molto diversa, invece, la situazione di Lea. Non ha mai imparato bene il tedesco e fatica ad integrarsi, le manca il suo paese natale e le manca la sua famiglia. Lei cerca rapporti umani, amicizie e, in mancanza di questo, si attacca morbosamente al figlio, che, ancora piccolo, ha bisogno della sua mamma.
Le parole straniere non le dicono niente. Non hanno il vero gusto dell’amore.
Georg Karnowski
Georg è figlio di David, ma è molto diverso da lui. Sente il peso di un padre rigido e di una madre semplice e troppo attaccata ai figli. Non c’è dialogo tra padre e figlio, che sembrano parlare due lingue diverse. La sua educazione gli sta stretta, non sopporta le lezioni di ebraico, a cui non è minimamente interessato. Lo interessa la filosofia, inizialmente, ma poi, dopo aver conosciuto il dottor Landau e la figlia Elsa e aver visto la loro grande passione e dedizione, si iscrive a medicina. L’attrazione che prova per Elsa potrebbe aver i qualche modo influenzato la sua scelta, ma, pur se con qualche dubbio, medicina si dimostra la scelta giusta.
Diventa medico e parte per il fronte durante la prima guerra mondiale. Al suo ritorno, molte cose sono cambiate, a cominciare dall’impegno politico di Elsa, che allontana i due. Quando Georg sposa una donna non ebrea, una gentile, Georg e il padre, i cui rapporti erano già ridotti al minimo, smettono di vedersi e sentirsi. Anche dopo la nascita del piccolo Jegor.
E in tutto questo si sta insinuando il seme della seconda guerra mondiale, con le teorie antisemite che stavano per cambiare tutto per la famiglia Karnowski.
Nelle strade i giovinastri aggredivano persone perbene, non imbroglioni né profittatori, cittadini seri e onesti, li insultavano e addirittura li picchiavano, e la polizia lasciava fare
Jegor Karnowski
Jegor è un ragazzo combattuto, diviso tra il suo essere ebreo (che detesta con tutte le sue forze) e il suo essere Gentile, riconoscimento che brama più di ogni altra cosa al mondo. Ma i suoi occhi azzurri non bastano, perché i capelli neri, il naso e soprattutto il cognome indicano la sua provenienza. Detesta il padre per essere ebreo e detesta la madre per aver sposato un ebreo. Venera lo zio, fratello della madre di orientamento nazista e lo erge a suo modello.
Provava un grande sconforto, come se fosse affetto da una deformità vergognosa. Con l’umiliazione montava in lui la collera contro il padre, causa di tutte le sue sofferenze.
Diventa perciò un sostenitore del nazismo e quando la famiglia è costretta a emigrare, il suo odio e il suo rancore raggiungono livelli ingestibili e Jegor verrà trascinato in un vortice di azioni dissennate e decisioni scellerate.
Il finale vi sorprenderà.
L’autore
Singer guarda tutto dall’alto e ci porta con passo sicuro e sguardo imperturbabile verso il baratro dell’animo umano. Odio, antisemitismo, discriminazioni, lotte, orgoglio, amori e dolori si fondono in un romanzo che è un piccolo capolavoro da non perdere.
Se siete amanti delle saghe famigliari, leggete la mia recensione de I leoni di Sicilia qui.
Le Braci è un romanzo riflessivo e che porta a riflettere, uno di quei libri che, pur nella sua brevità, scava a fondo nell’animo umano e nelle sue passioni. Uno di quei libri che a me piacciono molto e di cui spesso rileggo alcune parti. Si tratta della storia di un’amicizia lunga e profonda, e delle crepe che si sono formate negli animi dei protagonisti.
Come fratelli
Konrad e Henrik si sono conosciuti all’accademia militare di Vienna quando avevano 10 anni e fin dal primo momento si sono resi conto che quell’incontro li avrebbe vincolati per tutta la vita. I due ragazzi hanno iniziato a passare molto del loro tempo insieme e la loro amicizia si fa sempre più intima e profonda, fino a diventare un rapporto quasi simbiotico.
Vissero insieme sin dal primo istante, come gemelli nell’utero materno. La loro amicizia era seria e silenziosa come tutti i grandi sentimenti destinati a durare una vita intera. E come tutti i grandi sentimenti anche questo conteneva una certa dose di pudore e di senso di colpa. Non ci si può appropriare impunemente di una persona, sottraendola a tutti gli altri.
L’unica cosa che li divideva era la loro opposta condizione economica: il vasto patrimonio di Henrik da un lato, la dignitosa povertà di Konrad dall’altro. Ma si volevano bene, di conseguenza quello che è alla stregua di un peccato originale, veniva perdonato, Henrik perdonava a Konrad la sua povertà e Konrad perdonava a Henrik il suo patrimonio.
Il segreto
Ma allora cosa è successo tra loro che li ha tenuti separati per ben 41 anni e li ha resi così diffidenti e astiosi l’uno con l’altro? C’è un segreto tra loro e apparentemente è talmente grande e forte da aver segnato tutta la loro esistenza da un certo punto in poi in maniera irreversibile.
Una forza che brucia il tessuto della vita come una radiazione maligna, ma al tempo stesso dà calore alla vita e la mantiene in tensione.
L’amicizia è un sentimento profondo, una forma d’amore e in questo romanzo troviamo una profonda riflessione sull’amicizia, un sentimento puro, altruista, comprensivo, generoso come pochi altri.
Le braci
In un certo senso, tuttavia, questo è anche un libro sulla vendetta, una vendetta attesa a lungo e pazientemente, frutto di una passione di cui ora rimangono solo le braci. Quella passione che ha avvelenato il sangue, offuscato la ragione, in nome della quale sono state prese decisioni scellerate e nefaste.
Le braci sono anche quelle di un’epoca ormai scomparsa, la fine dell’impero austro-ungarico che tanti ha lasciato orfani, e di quella cultura mitteleuropea che l’aveva reso grande. La Grande Guerra ha cambiato l’assetto dell’Europa ed ora, con un nuovo conflitto mondiale alle porte, Henrik si chiede che senso abbia mantenere vive le braci di un dolore che non fa più male. Dunque, perché una vendetta, se non c’è più dolore? Sono risposte quelle che Henrik cerca, risposte che solo Konrad può dargli e solo dopo aver avuto queste risposte la porta potrà essere definitivamente chiusa.
Cosa abbiamo guadagnato con il nostro orgoglio e la nostra presunzione?
Questo lungo monologo risulta una lunga riflessione sulla natura dell’essere umano, le sue passioni, il suo orgoglio, le sue ossessioni. Scritto con stile scorrevole ed elegante, parte lentamente per poi coinvolgere sempre più il lettore in un vortice emotivo da cui non si esce uguali a prima.
La Mennulara è il primo libro di Simonetta Agnello Hornby, forse non il suo migliore, ma sicuramente degno di nota. È uno di quei libri non sempre facili da leggere, uno di quei libri che partono lentamente, ma poi raccontano una grande storia che valeva davvero la pena di essere raccontata.
La Mennulara
Siamo in Sicilia, in un piccolo paesino, Roccacolomba, nel 1963. Maria Rosaria Inzerillo, detta la Mennulara (la raccoglitrice di mandorle) è morta. A dare notizia è la famiglia Alfallipe, una delle più in vista della città, per la quale ha lavorato quasi tutta la sua vita. Nata in una famiglia poverissima, entrò a servizio dagli Alfallipe e ne amministrò da un certo punto in poi anche il patrimonio. Ma nessuno sa, nessuno capisce come sia riuscita la Mennulara ad ottenere la loro fiducia fino a questo punto. In fondo era solo una donna di servizio e per giunta semianalfabeta. Eppure era una donna estremamente intelligente e oculata e disponeva di denaro che nessuno sapeva spiegarsi da dove provenisse. Non certo dal magro stipendio da cameriera.
In paese tutti parlano e corrono voci che fosse denaro rubato proprio alla famiglia Alfallipe oppure ottenuto in modo disonesto. In un modo o nell’altro, tutti parlano della Mennulara dopo la sua morte, qualcuno la ritiene una santa donna, per altri era scostante, arrogante, approfittatrice.
Tanti personaggi, un unico argomento di conversazione
Ognuno ha qualcosa da dire su di lei, e mentre noi lettori veniamo sballonzolati da un personaggio all’altro (sono molti e a volte si fatica a seguire il filo), emergono la sua personalità e la sua storia.Sullo sfondo, quasi fosse anche lei un personaggio, la Sicilia, una terra dove abitudini e tradizioni antiche sono ancora forti nonostante i cambiamenti in atto nell’Italia del secondo dopoguerra.
Dopo un inizio lento e non sempre facile, si dipana la storia di questa povera arricchita che suscita invidie e gelosie, ma anche ammirazione e rispetto. Una donna che ha dovuto sopportare tanto e la cui vita, si scopre pian piano, è la conseguenza di privazioni e violenze, ma anche di scelte oculate e intelligenti.
Il ritratto della Mennulara e le vicissitudini della sua vita emergono dai vari personaggi, ognuno dei quali ci regala un pezzo del puzzle. E alla fine, che lo vogliamo o no, anche la nostra opinione di Mennù cambia e finiamo per comprenderla ed essere solidali con lei.
Ha ragione, non è facile definirla, senza dubbio era dotata di notevole intelligenza nonché di una certa cultura: una donna complessa. A casa si rideva della sua segretezza: mio padre, che era nell’arma dei Carabinieri, sosteneva che se fosse nata maschio sarebbe diventata capomafia, la chiamava ‘fimmina di panza’.

Titolo: La Mennulara
Autrice: Simonetta Agnello Hornby
Casa editrice: Feltrinelli
Pagine: 224
Il Signore delle Mosche è il romanzo più conosciuto di William Golding, autore britannico noto soprattutto grazie a questa sua prima opera, nonostante la sua produzione letteraria non sia fermata qui. Potrebbe sembrare solo un libro per ragazzi, ma questo romanzo in realtà è molto di più.
Lost
Come nella famosissima serie televisiva Lost, in cui, tra l’altro, questo romanzo viene citato dal notissimo personaggio James Ford, detto Sawyer, un aereo si schianta su un’isola tropicale. Sopravvive solo un gruppo di bambini e di ragazzini. Nessun adulto. Inizialmente sembra quasi un romanzo alla Robinson Crusoe, in cui si fa bella mostra delle capacità inglesi di rimboccarsi le maniche e superare con l’intelletto gli ostacoli cui la natura ci mette di fronte. Invece capiamo ben presto che non è affatto così. Non ci sono abilità e virtù da sfoggiare in quest’isola. E non c’è nessun indigeno, nessun Friday da civilizzare e assoggettare, solo un gruppo di ragazzini costretti a stare insieme per riuscire a sopravvivere in un ambiente che presenta mille insidie.
Inizialmente il gruppo reagisce dandosi alla pazza gioia, felici di avere un’isola meravigliosa tutta per loro e di poter decidere a piacimento del proprio tempo. Costretti però successivamente a darsi delle regole di convivenza per poter sopravvivere in un luogo in qualche modo ostile e di sicuro privo di comodità e privo di adulti che prendano decisioni e organizzino la vita, il gruppo arriverà alla fine a mostrare la sua vera natura, una natura brutale, per certi verso forse anche malvagia.
Organizzazione democratica
Inizialmente i ragazzi scelgono democraticamente un capo, Ralph, il quale, aiutato dal fedele e saggio Piggy, assegna dei compiti a ciascuno e convoca regolarmente assemblee. In questo modo il gruppo tenta di darsi una forma all’apparenza democratica. Potrebbe sembrare il trionfo della democrazia e del buon senso inglese, un’organizzazione basata su una equa suddivisione dei compiti per i principali obiettivi di sopravvivenza: andare a caccia, costruire dei rifugi e tenere acceso un fuoco per poter essere avvistati e dunque salvati. Tuttavia, l’isola non è l’Inghilterra e qui non c’è nessun ben comune da preservare. Anche il fuoco, inizialmente così importante, diventa il pomo della discordia, anziché un punto di unione.
Belzebù, il Signore delle Mosche
Poco a poco l’obiettivo dell’autore diventa chiaro: mostrarci una continua lotta tra bene e male, tra istinti animali e intelletto, a cui i ragazzini rischiano di soccombere. Il buon senso lascia presto il posto all’istinto, spesso animalesco, ed emergono poco a poco e caratteristiche peculiari di ciascuno di loro, acuendo differenze e divisioni. La vanità, l’autoesaltazione e l’istinto di soggiogare prevarranno sull’unità del gruppo e sul bene comune, trasformando l’isola da paradiso tropicale a inferno in terra, desolato e opprimente.
Il Signore delle Mosche, personificato nel romanzo da una testa di maiale appesa a un palo, altro non è che un altro nome di Belzebù, signore dei demoni, composto da Baal (“signore” in fenicio) e Zebub (“mosche”). Era detto così perché “nemmeno una mosca potrebbe sfuggire ai suoi intrighi” (clicca qui per saperne di più). Questo ci porta alla questione della natura umana. Golding sosteneva la tesi della malvagità intrinseca della natura umana e lo dimostra ampiamente in questo romanzo.
L’uomo produce il male come le api producono il miele.
Il male è dunque al centro di questo romanzo e ciò che colpisce è la natura malvagia è qui propria anche dei fanciulli, che ancora non sono corrotti dalla malvagità del mondo, a dimostrazione del fatto che questo è insito nella natura dell’essere umano e viene solo tenuto a bada attraverso un convivere comune. I ragazzi, infatti, dopo l’iniziale tentativo di instaurare un sistema pseudo-democratico, si lasciano trasportare da una spirale di violenza, regredendo verso una barbarie quasi primitiva che obnubila loro la mente. I tentativi di riportare le cose a una sorta di ordine naufragano miseramente, come argini deboli di un fiume in piena, e la violenza e la barbarie dilagano senza freni.
Si tratta di un romanzo forte, con un messaggio ancora più forte, da leggere assolutamente, anche qualora non fossimo d’accordo con la visione di Golding.
Avrei pensato che un gruppo di ragazzi inglesi… Siete tutti inglesi, no?… sarebbero stati capaci di qualcosa di meglio… Voglio dire…

Titolo: Il Signore delle Mosche
Titolo originale: Lord of the Flies
Autore: William Golding
Traduzione: Laura De Palma
Casa editrice: Mondadori
Pagine: 277
Amabili Resti è un romanzo che mi ha colpito e allo stesso tempo accarezzato dolcemente, è un romanzo crudele e delicato allo stesso tempo. Da molto tempo aspettava di essere letto, la prima volta che ne sentii parlare era circa quindici anni fa, ma solo ora è finito realmente nelle mie mani, chiedendo a gran voce di essere letto. Non me ne sono assolutamente pentita
Di chi sono gli amabili resti
Susie Salmon ha quattordici anni quando viene stuprata e uccisa da un serial killer, il suo corpo fatto a pezzi e gettato in una discarica. Una vita appena iniziata quella di Susie, tante esperienze ancora da vivere, legami da costruire e rinsaldare. Ma nulla di tutto ciò è più possibile per lei, che ora guarda tutto dal suo Cielo, e dal suo Cielo rimane vicina ai suoi cari. E dal suo Cielo ci racconta ogni cosa. Sì, la storia è raccontata proprio da Susie e noi vediamo tutto attraverso i suoi occhi, sentiamo ciò che sente lei.
Susie osserva la sua famiglia e i suoi amici affrontare la perdita: un padre distrutto dal dolore che non riesce a rassegnarsi, una madre che, non sapendo come affrontare il dolore, lo fugge e fugge da tutti coloro che le stanno intorno, una sorella nei cui occhi tutti rivedono Susie, un fratellino piccolo che non sa come affrontare qualcosa di più grande di lui e una nonna che, nonostante i problemi con l’alcol, diventa una colonna portante della famiglia.
Fu soprattutto ora che ricuciva il tessuto della loro vita quotidiana di un tempo, sfidando la propria infermità per riprendersi un momento così, fu soprattutto allora che mio padre divenne il mio eroe.
Una storia delicata
Nonostante il tema sia terribilmente crudo e atroce (lo stupro e l’assassinio di una ragazzina da parte di un omicida pedofilo), la storia è raccontata in modo tenero e delicato, mai troppo duro e mai volgare. Il punto di vista narrativo è senz’altro originale e la scrittura scorre fluida, ma ciò che ho veramente apprezzato in questo romanzo è la sua vena introspettiva, i moti dell’anima di chi ha perso qualcuno e non sa rassegnarsi a una scomparsa così prematura e violenta, i moti dell’anima di chi, pur nella morte, non riesce a staccarsi dai propri cari e continua a gioire e soffrire con loro e per loro.
Quello che traspare è l’immensa forza che è necessario trovare dentro per riuscire ad andare avanti a dispetto di una tale tragedia, cercando di rimettere insieme i pezzi di una vita che non può fermarsi, nonostante il dolore. E in mezzo a tanto dolore e disperazione c’è amore, molto amore, un amore che diventa salvifico per le anime dei morti e per quelle dei vivi. E proprio questo penso sia il potentissimo messaggio: l’amore supera davvero tutte le barriere e se impariamo a guardare con gli occhi del cuore, tutto diventa possibile, o almeno sostenibile.
Perché l’orrore sula Terra è reale e accade tutti i giorni. È come un fiore o come il sole, è qualcosa di incontenibile.
L’autrice
La Sebold è stata lei stessa vittima di stupro, come racconta nel suo Lucky (clicca qui per avere più informazioni sul libro) e questa sua esperienza ha sicuramente influito nel modo che ha scelto di raccontare questa storia. Sa cosa si prova, sa come ci si sente, conosce la paura, è una sopravvissuta che ha dovuto imparare a convivere col dolore e la paura.
Non ci si accorge che i morti se ne vanno, una volta che hanno deciso di partire.
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Titolo: Amabili Resti
Titolo originale: The lovely bones
Autrice: Alice Sebold
Traduzione: Chiara Belliti
Casa editrice: e/o
Pagine: 345
LARA

Leggo sempre e ovunque, mi faccio trasportare dalle storie e divento più ricca e più vera ogni volta.