Il Signore delle Mosche è il romanzo più conosciuto di William Golding, autore britannico noto soprattutto grazie a questa sua prima opera, nonostante la sua produzione letteraria non sia fermata qui. Potrebbe sembrare solo un libro per ragazzi, ma questo romanzo in realtà è molto di più.
Lost
Come nella famosissima serie televisiva Lost, in cui, tra l’altro, questo romanzo viene citato dal notissimo personaggio James Ford, detto Sawyer, un aereo si schianta su un’isola tropicale. Sopravvive solo un gruppo di bambini e di ragazzini. Nessun adulto. Inizialmente sembra quasi un romanzo alla Robinson Crusoe, in cui si fa bella mostra delle capacità inglesi di rimboccarsi le maniche e superare con l’intelletto gli ostacoli cui la natura ci mette di fronte. Invece capiamo ben presto che non è affatto così. Non ci sono abilità e virtù da sfoggiare in quest’isola. E non c’è nessun indigeno, nessun Friday da civilizzare e assoggettare, solo un gruppo di ragazzini costretti a stare insieme per riuscire a sopravvivere in un ambiente che presenta mille insidie.
Inizialmente il gruppo reagisce dandosi alla pazza gioia, felici di avere un’isola meravigliosa tutta per loro e di poter decidere a piacimento del proprio tempo. Costretti però successivamente a darsi delle regole di convivenza per poter sopravvivere in un luogo in qualche modo ostile e di sicuro privo di comodità e privo di adulti che prendano decisioni e organizzino la vita, il gruppo arriverà alla fine a mostrare la sua vera natura, una natura brutale, per certi verso forse anche malvagia.
Organizzazione democratica
Inizialmente i ragazzi scelgono democraticamente un capo, Ralph, il quale, aiutato dal fedele e saggio Piggy, assegna dei compiti a ciascuno e convoca regolarmente assemblee. In questo modo il gruppo tenta di darsi una forma all’apparenza democratica. Potrebbe sembrare il trionfo della democrazia e del buon senso inglese, un’organizzazione basata su una equa suddivisione dei compiti per i principali obiettivi di sopravvivenza: andare a caccia, costruire dei rifugi e tenere acceso un fuoco per poter essere avvistati e dunque salvati. Tuttavia, l’isola non è l’Inghilterra e qui non c’è nessun ben comune da preservare. Anche il fuoco, inizialmente così importante, diventa il pomo della discordia, anziché un punto di unione.
Belzebù, il Signore delle Mosche
Poco a poco l’obiettivo dell’autore diventa chiaro: mostrarci una continua lotta tra bene e male, tra istinti animali e intelletto, a cui i ragazzini rischiano di soccombere. Il buon senso lascia presto il posto all’istinto, spesso animalesco, ed emergono poco a poco e caratteristiche peculiari di ciascuno di loro, acuendo differenze e divisioni. La vanità, l’autoesaltazione e l’istinto di soggiogare prevarranno sull’unità del gruppo e sul bene comune, trasformando l’isola da paradiso tropicale a inferno in terra, desolato e opprimente.
Il Signore delle Mosche, personificato nel romanzo da una testa di maiale appesa a un palo, altro non è che un altro nome di Belzebù, signore dei demoni, composto da Baal (“signore” in fenicio) e Zebub (“mosche”). Era detto così perché “nemmeno una mosca potrebbe sfuggire ai suoi intrighi” (clicca qui per saperne di più). Questo ci porta alla questione della natura umana. Golding sosteneva la tesi della malvagità intrinseca della natura umana e lo dimostra ampiamente in questo romanzo.
L’uomo produce il male come le api producono il miele.
Il male è dunque al centro di questo romanzo e ciò che colpisce è la natura malvagia è qui propria anche dei fanciulli, che ancora non sono corrotti dalla malvagità del mondo, a dimostrazione del fatto che questo è insito nella natura dell’essere umano e viene solo tenuto a bada attraverso un convivere comune. I ragazzi, infatti, dopo l’iniziale tentativo di instaurare un sistema pseudo-democratico, si lasciano trasportare da una spirale di violenza, regredendo verso una barbarie quasi primitiva che obnubila loro la mente. I tentativi di riportare le cose a una sorta di ordine naufragano miseramente, come argini deboli di un fiume in piena, e la violenza e la barbarie dilagano senza freni.
Si tratta di un romanzo forte, con un messaggio ancora più forte, da leggere assolutamente, anche qualora non fossimo d’accordo con la visione di Golding.
Avrei pensato che un gruppo di ragazzi inglesi… Siete tutti inglesi, no?… sarebbero stati capaci di qualcosa di meglio… Voglio dire…

Titolo: Il Signore delle Mosche
Titolo originale: Lord of the Flies
Autore: William Golding
Traduzione: Laura De Palma
Casa editrice: Mondadori
Pagine: 277
Il buio oltre la siepe è uno di quei libri che ti rimangono attaccati addosso, uno di quei libri che una volta finiti lasciano dentro un vuoto, che non è poi facile riempire. È uno di quei libri che tutti dobbiamo leggere, per renderci conto che, nonostante i diritti umani e una mentalità più aperta, molte cose non sono cambiate poi così tanto, e per diventare ogni giorno un po’ di più Atticus Finch.
America anni Trenta
Maycomb, Alabama, anni Trenta. Scout Finch è una ragazzina vivace e ribelle che vive con fratello Jem, il padre Atticus e la cuoca Calpurnia in questa sonnolenta città nel sud-est degli Stati Uniti. Accanto a loro vivono i Radley, che incuriosiscono molto Jem, Scout e il loro amico Dill, in quanto segregano in casa il figlio Boo. I ragazzi trascorrono le loro estati insieme all’amico Dill, tra mille giochi all’aperto e tentate incursioni nella casa di Boo Radley.
Le cose cominciano a cambiare quando al padre, avvocato, viene assegnato un caso d’ufficio: difendere Tom Robinson un “negro” accusato di stupro. Questo procurerà molte ripercussioni nella vita dei Finch.
Atticus si dimostra un personaggio fuori dal comune per l’epoca: nell’America convenzionale e bigotta, obnubilata da stereotipi e pregiudizi razziali, Atticus cresce i suoi figli con valori quali l’uguaglianza, il rispetto e la cultura. Desidera che i suoi figli abbiano una cultura e li avvia alla lettura, risponde sempre alle loro domande, insegna loro il rispetto per gli esseri umani a prescindere da stato sociale, religione o colore della pelle. Non gli interessa quello che la gente dice di lui, perché risponde solo alla sua coscienza.
«Questo caso, il caso di Tom Robinson, è qualcosa che tocca la parte più profonda della coscienza di un uomo… Scout, non potrei andare in chiesa e venerare Iddio se non cercassi di aiutare quel ragazzo»
«Quasi tutti sembrano pensare di aver ragione loro, e che tu, invece, abbia torto…»
«Hanno sicuramente il diritto di pensarlo, come noi abbiamo il dovere di rispettare le loro opinioni, ma prima di vivere con gli altri io devo vivere con me stesso. L’unica cosa che non è tenuta a rispettare il volere della maggioranza è la coscienza.»
Atticus Finch
È un personaggio così tollerante, così umano. In un’epoca in cui il diverso era sempre additato e giudicato, messo al bando per lo più, lui rivendica l’universalità dell’essere umano in quanto tale. Difende Tom Robinson già sapendo che parte perdente in una società come quella, ma lo fa perché stanno perpetrando un’ingiustizia ai danni di un essere umano che viene giudicato non per ciò che ha compiuto (o non compiuto), ma per il suo aspetto. Quanto è ancora attuale, in un certo senso, questo pregiudizio! Sono persone così che poi aiutano a cambiare la storia, persone che dicono no ai pregiudizi, no alle ingiustizie, no agli stereotipi, no alle ineguaglianze. Mi fa venire in mente Rosa Parks, che proprio pochi anni prima che Harper Lee scrivesse questo libro, proprio in Alabama era stata il motore che aveva messo in moto il processo di abolizione delle leggi razziali.
La narrazione avviene trent’anni dopo i fatti e attraverso gli occhi di Scout vediamo una società dominata dall’intolleranza e attraverso i suoi occhi sentiamo le conseguenze delle scelte del padre. Scelte difficili, specialmente in una società come quella dell’epoca, in cui essere diversi equivaleva quasi a essere banditi dalla società ed essere “negrofili” era quasi peggio che essere assassini. Ma Atticus non molla.
Negrofilo è solo uno di quei termini che non significano niente: come moccioso. È difficile da spiegare: le persone meschine e ignoranti lo usano quando credono che uno stimi i negri e li preferisca a loro. Hanno cominciato a usarlo per indicare le persone come noi quando hanno bisogno di un epiteto con ci etichettarle.
Ma il finale?
La storia è narrata dal punto di vista di Scout, una bambina ancora libera dai pregiudizi che imperversavano all’epoca, ma allo stesso tempo troppo piccola, forse, per comprendere sino in fondo le ragioni che portano il padre a fare certe scelte. Scelte che sfidano l’opinione comune, la zona di comfort dell’abitudine e del conosciuto, per addentrarsi nel buio dell’ignoto, oltre quella siepe che ci mantiene al sicuro nelle nostre piccole tane, lontani dal diverso e dall’altro.
Il finale de Il buio oltre la siepe è uno dei più belli che io abbia mai letto (ammetto di essere molto difficile in questo, incipit e finali spesso mi deludono, anche in libri che ho molto amato), la perfetta chiusura di un cerchio che avvolge tutta la trama e che vi lascerà stupiti e commossi.
Il titolo italiano di questo romanzo, pur nella bellezza della metafora che evoca, non ha nulla a che vedere con il titolo originale To kill a mockingbird (uccidere un tordo beffeggiatore), titolo rievocato anche dalla bella copertina della versione Feltrinelli. Lascio a voi scoprire che ruolo abbia questo uccellino nella storia e perché uccidere un tordo beffeggiatore sia così significativo.

Titolo: Il Buio oltre la Siepe
Titolo originale: To kill a mockingbird
Autrice: Harper lee
Traduzione: Vincenzo Mantovani
Casa editrice: Feltrinelli
Pagine: 350
Certo, recensire Il conte di Montecristo non è facile, soprattutto non è facile farlo senza cadere nel banale e nel già detto e ridetto. Tuttavia, essendo uno dei miei libri preferiti e uno dei classici che ritengo da leggere assolutamente, voglio provare a darvi la mia opinione e piccola analisi di questo meraviglioso romanzo e cercherò di condividere con voi i motivi per cui penso che sia un must read assoluto.
La Trama
La trama de Il conte di Montecristo è nota e non temo quindi spoiler, proprio perché anche la filmografia è piena di versioni di film e/o serie tv tratte dal romanzo di Alexandre Dumas.
Edmond Dantès è un capace e onesto marinaio al quale, proprio per le sue abilità e la sua onestà, l’armatore Morrel dà una promozione che scatena la feroce invidia dello scrivano e computista Danglars. Danglars ambiva al posto di capitano e ordisce un complotto per togliere di mezzo Dantès e fare carriera. La sera del suo fidanzamento con la bella Mercedes, Dantès viene infatti arrestato con l’accusa di bonapartismo e rinchiuso in una delle prigioni più terribili di Marsiglia: il castello d’If.
Da questo momento in poi inizierà la seconda vita di Edmond Dantès, rinchiuso in una cella umida e buia, tra patimenti e sofferenze atroci, senza nemmeno sapere di cosa fosse accusato e senza alcuna possibilità di uscirne. Questo perché il sostituto procuratore del re al quale il caso è stato affidato ha talmente a cuore la sua carriera e teme così tanto che quello che Dantès sa gli impedisca di perseguire le sue ambizioni, che convalida il suo arresto e decide per la sua incarcerazione, nonostante avesse capito che era innocente. In questo modo, egli si macchia di un crimine gravissimo contro la giustizia, oltre che contro Dantès.
Il processo di formazione: da Edmond Dantès a il conte di Montecristo
In prigione Dantès cambia molto e, soprattutto dopo aver incontrato l’abate Faria, rinchiuso in una segreta poco distante da quella di Edmond, subisce un processo di formazione che lo porterà a diventare in seguito il conte di Montecristo. Faria non è solo un compagno di prigione per Edmond, è anche suo maestro e motivatore. Senza di lui probabilmente non sarebbe stato capace di far luce su quello che gli è accaduto; Faria è inoltre fondamentale nel processo di creazione della vendetta che proprio in quel periodo si piantò nel cuore di Dantès.
«Mi dispiace avervi aiutato nelle vostre ricerche e avervi detto quello che ho detto» disse.
«E perché mai?» domandò Dantès.
«Perché vi ho istillato nel cuore un sentimento che non c’era: la vendetta.»
Il conte di Montecristo ha occhi profondi e indagatori, un volto pallidissimo, mani gelide e una ruga sulla fronte di chi ha molto sofferto. È pressoché impossibile leggergli dentro. Ha molte conoscenze e una grande influenza su cose e persone. Montecristo affascina e conquista chi gli sta intorno, ma allo stesso tempo usa e condiziona chi gli sta intorno. È carismatico e attrae le persone anche perché sembra avere una conoscenza vastissima su svariati argomenti, tra cui scienza, finanza, medicina, leggi.
La vendetta
L’idea iniziale non è originale, Dumas ha preso spunto da una vicenda di cronaca nera, ma la sua forza creativa ha reso questo romanzo un capolavoro della narrativa denso di episodi avvincenti e splendidamente costruiti, personaggi articolati e sfaccettati, temi e messaggi tutt’altro che moralisti.
La vendetta è certamente il tema principale, senza tuttavia essere considerato necessariamente qualcosa di negativo che si ritorca contro colui che la mette in atto, anche solo in forma di rimorso o mancata soddisfazione. Al contrario, la vendetta sembra procurare enorme soddisfazione a Montecristo, essendo il riscatto di un uomo ingiustamente ferito e umiliato, punito ingiustamente per un crimine non commesso.
Dal momento in cui è uscito di galera, non ha fatto altro che progettare la sua vendetta sui suoi aguzzini in misura direttamente proporzionale al loro contribuito alla sua sofferenza. E la sua vendetta è talmente ben costruita che nessuno, fino all’ultimo, sospetta nulla.
Ci sono persone che hanno sofferto tanto, e non solo non sono morte, ma hanno costruito una nuova fortuna sulle rovine delle promesse di felicità che il cielo aveva fatto loro fino a quel momento, sulle macerie di tutte le speranze che Dio aveva loro concesso. Ho imparato, ho visto quegli uomini: so che dal fondo dell’abisso dove il loro nemico li aveva gettati si sono rialzati con tanto vigore e tanta gloria che hanno dominato il loro vincitore di un tempo e l’hanno a sua volta gettato in un precipizio.
La vendetta, dunque, scenderà implacabile, fredda e precisa sugli aguzzini , che Montecristo andrà a colpire in modo mirato e mirabile.
Onnipotenza
Con grande sapienza narrativa, Dumas trasforma Dantès da vittima a carnefice, donandogli una sorta di onnipotenza che solo raramente vacilla. E noi lettori non possiamo evitare di essere dalla sua parte, di ammirarlo; ci identifichiamo a tal punto con lui che arriviamo a perdonargli tutto e solamente quando Montecristo è preso dai dubbi sulla legittimità della sua impresa, qualche dubbio viene anche a noi. E ciò che accade dopo è una conseguenza di ciò, una sorta di presa di coscienza della falla su quell’onnipotenza che Montecristo è sempre stato convinto di avere. La maestria di Dumas ci regala così un finale degno di una grande romanzo quale è Il conte di Montecristo.
Perché dovresti leggere Il conte di Montecristo
Perché è un romanzo avvincente, scritto con grande maestria e sapienza e che vi terrà incollati alle pagine. Ogni volta che crederai di aver capito cos’ha in mente Montecristo, lui ti stupirà e ti farà venire un nuovo desiderio di sapere come va a finire. E perché, oltre che personaggi sapientemente costruiti, una trama avvincente e una scrittura accattivante, ci sono riflessioni profonde sull’essere umano e le sue sfaccettature. Non manca proprio nulla in questo grande classico. Se non l’hai ancora fatto, corri a leggerlo!
Se ti piacciono i classici e hai voglia di scoprirne altri, leggi il mio articolo su i classici da leggere assolutamente.
Attenzione alla traduzione!
Ci sono edizioni de Il conte di Montecristo che hanno come traduttore Emilio Franceschini, si tratta in realtà di un gruppo di traduttori che si sono arrogati il diritto di fare dei tagli in alcune parti per renderle, a loro dire, più scorrevoli. Io non amo questo genere di cose e personalmente credo che il compito di un traduttore sia quello di rendere al meglio possibile l’originale. Questo non comprende tagli e/o aggiunte nel testo. Per questa ragione io sconsiglio queste edizioni. Io ho letto l’edizione BUR nella traduzione di Guido Paduano e mi sono trovata bene.
Leggere i classici non sempre facile, i grandi autori del passato a volte possono risultare difficili da comprendere e a volte persino noiosi. I tempi nei quali vivevamo e dei quali scrivevano e il modo di scrivere ci possono a volte apparire noiosi e lenti. Tuttavia, un classico è un libro che ha sempre qualcosa da insegnare, non a caso è entrato nella definizione di classico. Quella che mi piace di più è quella di Calvino: “Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quello che ha da dire”, esprime esattamente ciò che penso io dei classici. Vale la pena, a volte, metterci un po’ più tempo, ma leggere un libro che ha tanto da dare!
E quindi ecco qui una mia piccola lista di classici da leggere.
L’idiota – Fëdor Dostoevskij

Titolo: L’idiota
Titolo originale: Идиот
Autore: Fëdor Dostoevskij
Traduzione: Laura Salmon
Casa editrice: BUR
Pagine: 800
Premetto che trovo sempre difficile apprezzare l’incipit e in generale le scene iniziali di un romanzo. Di norma mi costringo ad andare avanti perché non mi catturano quasi mai. Quello de L’idiota è, invece, mi è piaciuto moltissimo. Non è incisivo come ad esempio quello di Orgoglio e Pregiudizio o come quello di Anna Karenina, ma descrive una scena affascinante e insieme intrigante che a me ha fatto certamente venir voglia di continuare questo romanzo, cosa di cui mi sono tutt’altro che pentita.
Un treno compare nella nebbia…
Alla fine di novembre, durante il disgelo, il treno della linea ferroviaria Pietroburgo-Varsavia si andava avvicinando a tutta velocità, verso le nove del mattino, a Pietroburgo. L’umidità e la nebbia erano tali che s’era fatto giorno a fatica; dai finestrini del vagone era difficile distinguere alcunché a dieci passi a destra e a sinistra. Fra i passeggeri c’era anche chi tornava dall’estero, ma erano affollati soprattutto gli scompartimenti di terza classe, pieni di piccoli uomini d’affari che non venivano da troppo lontano. Tutti, com’è logico, erano stanchi, gli occhi appesantiti per la nottata trascorsa, tutti infreddoliti, i visi pallidi, giallastri, color della nebbia.
Su un treno che appare nella nebbia di novembre si incontrano due personaggi davvero singolari: il principe Lev Nikolàevič Myškin e Parfën Rogòžin, l’uno dotato di una bellezza eterea, biondo, dalla pelle chiarissima e dai modi gentili, l’altro scuro, dagli occhi e dai capelli nerissimi e modi rudi e maleducati. I due sono destinati a incontrarsi durante tutto il romanzo, diventando quasi l’uno l’alter ego dell’altro due facce di una stessa medaglia, in un rapporto di amore e odio che percorrerà tutta la vicenda. Ambientato nella Russia del XIX secolo, il romanzo si pone come obiettivo quello di raccontare di “un uomo totalmente bello”, come lo stesso autore dirà.
La mano abile e talentuosa di Dostoevskij ci conduce attraverso un labirinto di amori, emozioni, intrighi di un mondo corrotto e malato che la bellezza dell’anima, la purezza dei sentimenti e la bontà innocente di Myškin dovrebbe salvare. In una continua lotta tra luce e tenebra, tra bene e male, tra bontà e malvagità il talento di uno dei più grandi scrittori mai esistiti ci fa fare la conoscenza di uno dei personaggi più straordinari della letteratura, creando uno di quei libri che vorresti non finissero mai.
Notre-Dame de Paris – Victor Hugo

Titolo: Notre-Dame de Paris
Titolo originale: Notre-Dame de Paris
Autore: Victor Hugo
Traduzione: Donata Feroldi
Casa editrice: Feltrinelli
Pagine: 521
Questo famosissimo romanzo inizia in maniera dirompente, con una folla di personaggi singolari, ognuno con le sue peculiarità. Solamente dopo averci fatto passare attraverso una folla brulicante di parigini riuniti al Palais de Justice per assistere a una rappresentazione, attraverso grida di giubilo e non solo, ego feriti di poeti incompresi, cardinali, mendicanti e calzettai che si rubano la scena a vicenda, compare lui, il campanaro, il gobbo di Notre-Dame grazie al quale tutti conoscono questo romanzo.
Ma sbaglia chi pensa che questa sia solo la storia di Quasimodo ed Esmeralda; è la storia di Parigi e dei parigini, di personaggi singolari e loschi individui, di emozioni e sentimenti, ma anche di torture e malvagità.
La descrizione che Hugo fa di Quasimodo è un esempio della sua grande capacità stilistica e descrittiva. Quasimodo ha un aspetto repellente e passa la quasi totalità della sua giornata nella cattedrale di Notre-Dame di cui è campanaro, grazie alla bontà del diacono Claude Frollo, che lo adottò quando nessuno lo voleva. Su di lui c’è in città ogni sorta di diceria, ognuna delle quali collega il suo aspetto orrendo a presunta malvagità, finanche stregoneria.
Lungo le pagine di questo romanzo si intrecciano le storie di Esmeralda, la bella zingara, Claude Frollo, il diacono fuori dal comune, Pierre Gringoire, poeta e filosofo costretto all’accattonaggio e Parigi, alla descrizione della quale l’autore dedica un capitolo intero.
Quasimodo, Esmeralda, Pierre, Claude e la cattedrale di Notre-Dame
In un alternarsi di scene descrittive e scene suggestive e/o ironiche come quella del baccanale alla Corte dei Miracoli o quella dell’incontro tra Esmeralda e Pierre Gringoire, o ancora la scena del giudice sordo che interroga un sordo Quasimodo, si dipanano e si intrecciano le vite dei vari personaggi, tutto intorno alla maestosità della cattedrale di Notre-Dame.
Hugo ha uno stile complesso e ricercato, denso di citazioni e lunghe descrizioni piene di dettagli di ogni sorta possono rendere a volte la lettura pesante a chi ama l’azione. Ma è capace di alti picchi di poesia e di ironia e ci dona capitoli davvero emozionanti.
Personalmente, ho trovato straziante la scena di Quasimodo alla berlina, ho trovato quasi disumani l’odio e la crudeltà di cui l’essere umano si rende capace e ho trovato molto interessante il paragone tra architettura e pensiero umano.
Questo romanzo è denso di spunti interessanti, di storie intrecciate, di amore, odio, emozioni, crudeltà, paure, sacrifici e anche qualche piccolo colpo di scena e non può mancare nelle vostre librerie!
Tempi difficili – Charles Dickens

Titolo: Tempi Difficili
Titolo originale: Hard Times
Autore: Charles Dickens
Traduzione: Bruno Amato
Casa editrice: Feltrinelli
Pagine: 376
Questo romanzo è forse un po’ meno famoso di Grandi Speranze o di Oliver Twist, ma di sicuro non meno meritevole. È ambientato in una città fittizia dal significativo nome di Coketown (letteralmente “città del carbone”) e sviluppa temi cari a Dickens, quali la denuncia delle condizioni di lavoro e di vita della classe operaia, la crisi del modello di sviluppo, la denuncia di quei “fatti” che stanno alla base del positivismo.
Dickens è un grande narratore, con una spiccata capacità di costruire dialoghi di cui vediamo ottimi esempi in questo romanzo dal ritmo intenso e con frequenti cambi di prospettiva. Il punto di vista è infatti spesso quello dei personaggi.
Thomas Gradgrind è un uomo razionale, un “uomo di fatti e di calcoli” che misura tutto, compresa la natura umana, in termini razionali e matematici. Non accetta nulla che non sia razionale e corroborato dai fatti, unica cosa che conti per lui nella vita. Ha una scuola nella quale si insegna ai bambini a liberarsi dell’immaginazione e a vivere di soli fatti. La città in cui vive con la sua famiglia, Coketown, è perfetta per lui, in quanto è “un’apoteosi di fatti”. È una città di mattoni ricoperti dalla cenere emessa dai macchinari e dalle ciminiere di cui è piena, una città in cui tutti gli edifici sono uguali e le persone sono spesso anch’esse tutte grigie uguali.
Utilitarismo e pensiero positivista
Le cose, tuttavia, non vanno proprio come Gradgrind avrebbe voluto, i suoi figli sono i primi a ricercare la bellezza dell’immaginazione e, nonostante un matrimonio ben congegnato per la figlia, si ritroverà a dover gestire molte cose che vanno al di là della sua comprensione razionale. Si ritroverà alla fine a fare i conti con il fallimento di quel tipo di educazione in seno alla sua stessa famiglia.
Dickens ci accompagna lungo il tragitto di questo fallimento con ironia e abilità, dandoci modo di riflettere molto sui principi utilitaristici che ancora impregnano la nostra società attuale.
Jane Eyre – Charlotte Brontë

Titolo: Jane Eyre
Titolo originale: Jane Eyre
Autrice: Charlotte Brontë
Traduzione: Stella Sacchini
Casa editrice: Feltrinelli
Pagine: 596
Diversamente da Dickens, Charlotte Brontë ci offre luoghi periferici e solitari, dove la natura è parte integrante della storia. Questa è una caratteristica che accomuna tutte e tre le sorelle Brontë, molto legate alla natura e in special modo alla brughiera.
Jane Eyre è un’orfana che vive da una zia tirannica che non la vorrebbe in casa sua e cugini che non la sopportano. Fin da piccola è dunque costretta a far fronte a difficoltà che formeranno il suo carattere. A dieci anni viene mandata in collegio a Lowood, dove riceverà una buona educazione, pur se a costo di privazioni e stenti.
Jane non è bella, non è attraente, ma ha una volontà di ferro e si procura un lavoro come governante a Tornfield, dimora del signor Rochester. La storia d’amore tra due è tema centrale di tutto il romanzo, che però è infittito di ingredienti gotici (la stessa Tornhill è un ambiente scuro e tetro, che nasconde terribili segreti) e autobiografici. Charlotte è la maggiore delle tre sorelle Brontë ed è dotata di una grande vivacità intellettuale e di una grande capacità di creare personaggi. La sua tematica prediletta pare essere quella della proposta d’amore inaccettabile, socialmente o moralmente, che innesca passioni e tormenti. Ritroviamo, infatti, tutto questo in Jane Eyre, insieme a una denuncia dei cliché del’epoca sulle donne e a una denuncia di una società discriminatrice e ingiusta.
In genere si crede che le donne siano molto quiete. Le donne invece provano gli stessi sentimenti degli uomini. Hanno bisogno di esercitare le loro facoltà, e di provare le loro capacità come i loro fratelli; soffrono come gli uomini dei freni e dell’inattività, e fa parte della mentalità ristretta dei loro compagni più fortunati il dire che si devono limitare a cucinare e a far la calza, a suonare il piano e a far ricami. È stupido condannarle o schernirle, se cercano di fare di più o imparare di più di quello che è solito al loro sesso.
Un romanzo autobiografico
Ogni luogo in cui Jane Eyre vive ha un significato, simboleggia una fase della sua vita: Gateshead, la casa della zia, simboleggia la barriera, la prigione in cui lei si sente; Lowood rappresenta il degrado e gli stenti a cui Jane è sottoposta; Tornfield rappresenta le spine e il dolore che provoca nel cuore ingenuo di Jane l’amore per il suo padrone; Whitcross è un momento di scelta per lei e di profonda incertezza; Marsh End è la fine del suo peregrinare, un luogo dove Jane si sente felice e gioisce della svolta della sua vita; e infine Ferndean, il luogo dove trascorrerà il resto della sua vita. È piuttosto evidente che Charlotte Brontë abbia proiettato se stessa in Jane e le abbia regalato ciò che, credo, avrebbe voluto per se stessa.
Cime Tempestose – Emily Brontë

Titolo: Cime Tempestose
Titolo orgininale: Wuthering Heights
Autrice: Emily Brontë
Traduzione: Laura Noulian
Casa editrice: Feltrinelli
Pagine: 428
Cime Tempestose è il capolavoro di Emily Brontë, sorella minore di Charlotte, nel quale ha messo tutta la forza e l’energie interiori di una vita non consumata (è morta a soli trent’anni). È, infatti, un romanzo forte, quasi virile, rappresentato pienamente dal demoniaco Heathcliff, il quale si presenta fin dall’inizio per quello che è: terribile, scontroso, inospitale, selvaggio.
La Brontë utilizza qui la tecnica narrativa del flashback e dunque il romanzo inizia quando la storia è alla fine e Thushcross Grange, grande casa ai piedi della collina, viene affittata.
Il locatario, il signor Lockwood, va a fare la conoscenza del suo padrone di casa a Cime Tempestose e incontriamo così subito Heathcliff. Quello che accadrà durante questa e la successiva visita di Lockwood a Cime Tempestose, farà venire al tenutario il desiderio di conoscere la storia di questo crudele padrone di casa e di quella Catherine di cui ha intuito l’importanza proprio nella casa di Heathcliff. Gli viene in soccorso Nelly, la sua governante, che gli racconta tutta la storia.
Heathcliff è un trovatello, forse di origine zingara, che il Sig. Earnshaw porta a casa da un suo viaggio a Liverpool e che cresce a Cime Tempstose, una fattoria rustica e priva di comodità, insieme ai suoi figli Hindley e Catherine, diventando il favorito. Eccetto il Sig. Earnshaw e Catherine, per cui diventa l’inseparabile compagno di giochi, nessun altro lo ama. E lui non fa molto per farsi amare. Ha un carattere riservato e taciturno, forte e scontroso ed era spesso immusonito. Maltrattato in maniera crudele da Hindley, giura vendetta. Catherine, d’altro canto, è una bambina irrequieta e sfrenata, audace e sfrontata.
Malvagità fatale
La sua insolenza ha un grande potere su Heathcliff, ma tutto cambia quando Catherine conosce gli abitanti di Thrushcross Grange, grande, ricca e luminosa casa ai piedi della collina (che contrasta con la tetraggine, il buio e la povertà di Cime Tempestose). Edgar e Isabella sono belli e sofisticati ed entrambi hanno influenza sulla piccola Catherine, sensibile alle cose belle. Questo fa allontanare i due compagni di gioco, con gran dolore di Heathcliff, il quale scompare per tre anni. Al suo ritorno, trovando Catherine sposata a Edgar, inizierà a mettere in atto la sua vendetta che porterà dolore e devastazione, finendo per distruggere anche se stesso.
Dotato di un’inflessibile durezza, incapace di pietà e misericordia, Heathcliff rappresenta il principio del Male. Ma è un malvagio fatale che inevitabilmente attira il lettore, come succede ad esempio con il vampiro di Polidori o Rochester in Jane Eyre. In Heathcliff ritroviamo l’inferno degli eroi byroniani, tormento d’amore e ribellione, di modo che tutto ciò che si frappone tra lui e la sua passione totalizzante e totalitaria va annientato.
Nelle vene di Heathcliff e di questo romanzo scorre il fuoco interiore di Emily Brontë, il suo carattere impulsivo e facile alla collera non poteva che trovare espressione nella scrittura di quello che per me è prossimo a un capolavoro.
Il ritratto di Dorian Gray – Oscar Wilde

Titolo: Il ritratto di Dorian Gray
Titolo originale: The picture of Dorian Gray
Autore: Oscar Wilde
Casa editrice: Feltrinelli
Pagine: 261
Come non inserire nella lista dei classici da leggere assolutamente questo capolavoro di Oscar Wilde! Oscar Wilde ha una penna sopraffina e sa fare un uso acuto e intelligente dell’ironia, cose queste che danno una grande qualità ai suoi scritti. Questo romanzo è una summa delle teorie estetiche di Wilde, che, ricordiamo, è stato il leader del movimento estetico inglese. Lo stesso Dorian Gray altri non è che la personificazione dell’estetismo: bellissimo, elegante, di gran gusto e dedito a una vita di piaceri.
Tutto inizia con un quadro dipinto dal pittore Basil Hallward e da una strana amicizia nata con Lord Henry Wotton: due eventi che, concatenandosi insieme, determinano la formazione e le decisioni del giovane Dorian Gray. L’amicizia con lord Henry non solo renderà Dorian consapevole della sua straordinaria bellezza, ma lo inizierà anche a una vita dissoluta, fatta di sensi e piacere, ma anche di sofferenza e nefandezze. La ricerca del piacere in tutte le cose diventa per Dorian l’obiettivo primario e il quadro dipinto da Basil sembra proprio venirgli incontro in questo: Dorian non perde un briciolo della sua perfetta bellezza, è invece il quadro a prendere su di sé le conseguenze delle dissolutezze.
Era meravigliosamente bello, con quelle sue labbra scarlatte dalla curva delicata, quei suoi occhi azzurri pieni di freschezza, quei suoi cappelli d’oro ondulati.
La ricerca della bellezza
Dorian, spinto da Lord Henry e dalle sue teorie sulla giovinezza, intraprende una ricerca spasmodica di piacere dei sensi e bellezza che lo trascinerà in un vortice di azioni e conseguenze che lui non sarà più in grado di controllare. In un’eterna lotta tra il bene e il male, tra le tentazioni di Henry e i tentativi di Basil di farlo tornare puro e sensibile come prima, si consuma la formazione di questo giovane, che dovrà scegliere quale via intraprendere. Quali saranno le conseguenze delle sue scelte?
«Vorrei poter amare», gridò Dorian Gray , con una nota profondamente patetica nella voce. «Ma mi sembra di aver perduto la passione e dimenticato il desiderio. Mi sono concentrato troppo su me stesso; la mia personalità mi è divenuta un peso.»
Questo è un romanzo molto ricco di spunti di riflessione e di tematiche quali il ruolo dell’arte nella vita, la bellezza, la lotta tra il bene e il male, e non può mancare nelle nostre letture! Clicca qui per andare alla recensione completa.
Charles Dickens per me è sempre una garanzia, mi piace il suo stile, mi piace che i suoi libri hanno sempre una morale, mi piace la sua ironia, mi piace che i suoi libri insegnano sempre qualcosa. E anche questa volta non delude, anzi.
Non pensiate che Un canto di Natale sia un libro da leggere solo a Natale, tutt’altro, il messaggio che ci dona è universale e appartiene a tutti i tempi.
Trama
Ebezener Scrooge è un vecchio avido e avaro che pensa solo ai suoi soldi e non crede alla magia del Natale. Non fa alcuna azione buona, nessun gesto altruista e si comporta in maniera rigida e scontrosa anche con il suo unico dipendente. È talmente avaro che non accende il fuoco in ufficio e il segretario è costretto a lavorare con la sciarpa, il cappotto e i guanti. Ha un nipote buono e gioviale che lo va a trovare e vorrebbe che passasse il Natale con la sua famiglia, ma Scrooge lo manda via malamente lanciando insulti verso le persone che stupidamente perdono tempo con una cosa inutile come il Natale.
Una notte riceve in visita il fantasma del suo defunto socio, Marley, il quale gli preannuncia la visita di tre spiriti. Scrooge vorrebbe sottrarsi, ma non può. Da questo momento molte cose cambieranno.
Lo spirito del Natale
Un racconto che vuole cercare di portare lo spirito del Natale nei nostri cuori tutto l’anno, che ci invita ai buoni sentimenti, all’altruismo, a pensare alla vita come a un percorso che facciamo insieme, non da soli e ci invita a non pensare solo al nostro orticello, ma ad ampliare la nostra visione del mondo, includendo anche le altre persone. Solo così potremo essere persone felici e gioiose, solo condividendo con gli altri, aiutandoci a vicenda, riequilibrando gli squilibri della società, pensando a chi è più sfortunato come a qualcuno della nostra famiglia. È un libro conto l’indifferenza che oggi è più attuale che mai, nella nostra società contemporanea fatta di egoismi, egocentrismi e indifferenza.
Doveva essere l’umanità il mio campo d’affari; il benessere del prossimo; ecco quello che doveva essere il mio lavoro; affar mio doveva essere praticare la carità e la misericordia, la pazienza e la cortesia. I compiti della professione non rappresentavano più di una sola goccia nell’ampio oceano dei miei doveri!
Dickens ci invita a dare valore alle cose vere e ci dice che non è mai troppo tardi per cambiare, per pensare agli altri e vivere in fratellanza, anziché in solitudine.
È un libro per tutte le età e che tutti dovrebbero leggere almeno una volta nella vita!

Titolo: Un canto di Natale
Titolo originale: A Christmas Carol in prose, being a Ghost story of Christmas
Autore: Charles Dickens
Casa editrice: Giunti
Pagine: 144
Il ritratto di Dorian Gray non ha certo bisogno di presentazioni, è il famosissimo capolavoro dello scrittore inglese Oscar Wilde. Wilde è stato scrittore prolifico, abile e brillante conversatore, dandy ed esteta, con un umorismo insolente e a volte stravagante, che ha caratterizzato buona parte della sua produzione letteraria. Nato e cresciuto a Dublino, vinse una borsa di studio per Oxford, dove si fece conoscere per il suo acume e per le sue abilità oratorie. Fu introdotto nella cerchia dell’aristocrazia londinese (che poi sarà bersaglio del suo humor spietato) e divenne il leader del movimento estetico inglese.
Il ritratto di Dorian Gray
Il ritratto di Dorian Gray è l’unico romanzo di Wilde e rappresenta, in un certo senso, una sintesi delle teorie estetiche di Wilde riguardo una vita fatta di piacere e sensi come suprema forma d’arte. L’arte non dovrebbe essere dipendente dalla morale, né dovrebbe avere alcun fine diverso da quello della pura bellezza: l’arte è indipendente e fine a se stessa (art for art’s sake, l’arte per l’arte).
Dorian Gray è un giovane dalla straordinaria bellezza, la cui compagnia è ricercata da tutti in società. Lui non si rende conto della sua bellezza finché il pittore Basil Hallward non gli fa un ritratto che cattura meravigliosamente la sua bellezza. Dorian rimane molto colpito dalla perfezione della sua bellezza e sconvolto, allo stesso tempo, al pensiero che il passare del tempo distruggerà questo dono. Desidera ardentemente di non invecchiare mai e che sia invece il quadro a prendere su di sé i segni della sua decadenza. Il suo desiderio verrà esaudito, ma il quadro finirà per essere lo specchio della sua anima, piuttosto che del suo corpo.
Dorian si abbandona a una vita di piaceri e dissolutezze, spinto dalla ricerca del piacere e dal cinico amico Henry Wotton. La ricerca del piacere e della bellezza diventa il suo unico scopo nella vita, vive edonisticamente nel disprezzo della morale e incurante del fatto che la sua ricerca del piacere causerà morte e sofferenza intorno a lui.
La fine del romanzo sembra suggerire che ci sia un prezzo da pagare per una vita dissoluta dedita al piacere e l’infelicità di Dorian, nonostante tutto ciò che ha, è solo l’inizio di una spirale di dolore che porterà ad un tragico epilogo.
Edonismo e ricerca del piacere
Dorian Gray sembra inizialmente davvero puro e forse anche un po’ ingenuo, sembra quasi arrivare da un altro mondo, dove non esistono corruzione e immoralità. In questo mi ha ricordato molto il principe Miskin de L’idiota di Dostoevsky, un’anima pura e libera dalla corruzione del mondo. Poi, però, per entrambi le cose cambiano, anche se poi i due personaggi sono molto diversi tra loro. Dorian conosce Lord Henry Wotton, cinico e disilluso, che rimane così affascinato da Dorian che fa di influenzarlo il suo scopo principale e per questo dà il meglio (o il peggio, secondo i punti di vista) di sé per impressionarlo. E il ragazzo è così ingenuo, così avulso dai vizi e dalle passioni della vita, che lo segue ammaliato.
Si rendeva conto confusamente che dentro di lui agivano influenze del tutto nuove, e pur gli sembrava che provenissero in realtà da lui stesso. Le poche parole che gli aveva detto l’amico di Basil, parole dette indubbiamente a caso e piene di paradossi voluti, avevano toccato qualche corda segreta che non era mai stata toccata prima, e che egli ora sentiva vibrare e palpitare di una strana pulsazione.
Curiosità e sete di conoscenza
Dal momento in cui Dorian Gray ha incontrato Lord Henry a casa di Basil, in lui si è instillata una curiosità riguardo la vita, che cresce mano a mano che si sente gratificato dai piaceri che sta provando. Più conosce e più vuole conoscere. Trovo la sete di conoscenza non di per sé una cosa negativa, anzi, ma quando diventa ambizione tracotante (come accade in Frankenstein), ricerca spasmodica di risposte (come accade in Lo strano caso del dottor Jelyll e Mr. Hyde), oppure corsa cieca ed edonistica verso un obiettivo egoistico, come in questo romanzo, diventa potenzialmente disastrosa. La ricerca egoistica del piacere, la smania di far diventare la vita l’unica forma d’arte perfetta porterà Dorian alla rovina, come alla rovina sono stati portati Frankenstein e Jekyll.
Per lui, certo, la vita in se stessa era la prima e la più grande delle arti, per la quale tutte le altre arti sembravano costituire soltanto una preparazione.
Azioni e conseguenze
Quando si rende conto che il quadro sta effettivamente prendendo su di sé i segni dei suoi vizi e dei suoi peccati, Dorian Gray si spaventa e si ripromette di non peccare più, di resistere alle tentazioni e di non vedere più Lord Henry. Ma, poiché il quadro stava prendendo su di sé la decadenza della sua anima, Dorian non riesce nel suo proposito e, anzi, se possibile, la sua dissolutezza e la sua ricerca del piacere aumentano.
Soltanto gli esseri superficiali hanno bisogno di anni per liberarsi di un’emozione. Un uomo che sia padrone di se stesso può metter fine a un dolore con la stessa facilità con cui può inventare un piacere. Io non intendo essere alla mercé delle mie emozioni; intendo servirmene, goderle e dominarle.
Poco a poco, tuttavia, i nodi cominciano a venire al pettine e le conseguenze delle sue azioni iniziano a pesare su Dorian come dei macigni.
Dorian Gray: vittima o fautore del suo destino?
Possiamo considerare il bello come portatore del male? In realtà è come se Dorian Gray fosse lui stesso una vittima che subisce i crimini che gli vengono attribuiti. Non è solo un narciso egoista, ma è lui stesso prigioniero di una situazione da cui non riesce ad uscire. Volere a tutti i costi far coincidere la vita con l’arte può essere considerata l’origine dei suoi mali e la sua decadenza inizia in maniera violenta e brutale dopo che Dorian ha subito una cocente delusione da parte di Sybil Vane. Lei ha tradito l’ideale principe per Dorian, quello che fa coincidere la bellezza con la vita. Alla fine del romanzo l’unica cosa che rimane viva e che sopravvive all’uomo è l’arte, che si conferma avulsa dalla lotta tra il bene e il male di cui il romanzo è imperniato.
Ci sono tante cose interessanti in questo romanzo: interessanti riflessioni sulla bellezza e la gioventù, critiche alla superficialità di una società basata sulle apparenze, la condizione e l’opinione sulle donne che vigeva in quel periodo, l’arte, la bellezza. Tutti temi che Wilde porta avanti con maestria e grande abilità e anche in questo romanzo non si smentisce, inserendo caricature della classe aristocratica con lo humor e l’acume che lo contraddistinguono.

Titolo: Il ritratto di Dorian Gray
Titolo originale: The picture of Dorian Gray
Autore: Oscar Wilde
Casa editrice: Feltrinelli
Pagine: 261
Scritto nel 1818, Frankenstein è ormai entrato nell’immaginario di tutti noi, soprattutto per i film che ne sono stati tratti. A conti fatti, si tratta della narrazione del mito della creazione, un’esplorazione dolorosa e partecipata della diversità e del delirio di onnipotenza. Si realizza il sogno faustiano di sostituirsi al creatore, ma quali saranno le conseguenze?
La trama
Victor Frankenstein è un giovane scienziato svizzero, che studia filosofia naturale (natural philosophy, che era all’epoca il termine con cui si indicavano le scienze) ed è “consumato dal desiderio di scoprire il segreto della vita”. Durante i suoi studi incontra insegnanti che, inconsapevolmente, alimentano il suo desiderio che sfocerà in un progetto mostruoso: dare vita a una creatura usando parti di cadaveri. Quello che Frankenstein non aveva tuttavia considerato è cosa avrebbe fatto se ci fosse riuscito e questo avrà conseguenze funeste.
Lo scienziato infonde la scintilla vitale nella creatura (che per tutto il romanzo non riceverà mai un nome, verrà indicata sempre come “la Creatura”), ma il suo aspetto mostruoso terrorizza il suo stesso creatore, che la rifiuta. In principio, la creatura è la quintessenza della gentilezza, ma dopo essere stata respinta da tutti, e per primo dal suo stesso creatore, da suo “padre”, la sua natura subisce una totale trasformazione, facendolo diventare una macchina di morte. Tutte le sue azioni sono una conseguenza dell’isolamento a cui il “mostro” è costretto, del suo bisogno di affetto.
Frankenstein e i suoi cari subiranno le conseguenze della scelta sciagurata dello scienziato di fuggire dinanzi alla sua stessa creatura, del rifiuto di riconoscerne la paternità. La creatura farà del ritrovare il suo creatore il suo unico obiettivo, sottoponendolo a pressioni e ricatti pesantissimi.
La leggenda di Frankenstein
Si narra che questo romanzo sia nato in una notte, in seguito ad una proposta di Byron, durante un soggiorno estivo con Percy B. e Mary Shelly e Polidori. Durante una delle tante serate piovose in cui gli amici si riunivano a leggere, Byron propone una gara: ciascuno di loro avrebbe dovuto scrivere una storia dell’orrore, la migliore avrebbe vinto. Da questa gara nascono le idee per “Il vampiro” di Polidori, l’ “Augustus Darvell” di Byron e il “Frankenstein” di Mary Shelley.
Il romanzo, pubblicato inizialmente in forma anonima, fu un successo editoriale ed è letto e apprezzato ancora oggi. È eversivo e perturbante ed è narrato da tre diverse voci narranti, in un intreccio a incastro. Tutto il racconto ha come destinatario la sorella del capitano Walton, che incontrerà Frankenstein nell’estremo nord. Le lettere che il capitano manda alla sorella formano una sorta di cornice al racconto che vedrà alternarsi la voce di Frankenstein e quella della creatura. Questo consente di avere diversi punti di vista e diventa fondamentale per la comprensione della parte psicologica e di sviluppo dei personaggi.
Peccato d’orgoglio
Victor Frankenstein commette un peccato d’orgoglio, mosso da una libido sciendi, da un amore per la scienza che diventa un’ossessione. Desiderando creare la vita dalla morte, è come se Frankenstein si volesse mettere al posto di Dio, sovvertendo in questo modo l’ordine naturale e infrangendo allo stesso tempo anche il codice etico, cosa che avrà conseguenze disastrose e per la quale pagherà un prezzo altissimo.
Quando si rende conto di ciò che ha fatto, Frankenstein non riuscirà a sopportarne le conseguenze e la creatura diventerà, dopo il rifiuto del suo creatore, un vero e proprio mostro. Anche la creatura commetterà un piccolo peccato d’orgoglio, di gran lunga meno grave di quello del suo creatore. Mosso da una medesima libido sciendi, arriverà ad una conoscenza dell’uomo, della storia e della lingua parlata dall’uomo. Dall’acculturazione, tuttavia, deriva una maggior consapevolezza della sua diversità, del suo stato di mostro, della sua incompatibilità con la società umana. Il mostro cerca dunque vendetta, ma lo fa perché la sua condizione di isolamento forzato lo riempie di un odio e di una rabbia incontrollabili.
L’autrice e la sua creatura
C’è un nesso tra la creazione di Frankenstein e la vita della sua autrice, segnata da aborti, sensi di colpa, lutti e solitudine. La Shelley si identifica sia come Frankenstein (per il suo amore per la scienza), che come la creatura, il mostro (per l’abbandono da parte del padre, il senso di colpa, il rifiuto inconscio di essere madre).
Il romanzo potrebbe, per certi versi, anche leggersi un po’ come romanzo autobiografico, oltre che come precursore della science fiction. La Shelly conosceva bene la morte, aveva perso un bambino e c’erano stati due suicidi nella sua famiglia; era devastata dal senso di colpa che provava per aver ucciso la madre (morta poco dopo averla data alla luce) e crede di aver perso il bambino perché non può essere madre, avendo ucciso la sua.
La Shelley riesce a dare uno sviluppo psicologico notevole ai suoi personaggi, regalandoci un romanzo che dopo due secoli è ancora attuale per tutti i temi che affronta: quello della nascita, della creazione, del rifiuto, dell’importanza del gruppo, della diversità, del narcisismo, del sentimento di onnipotenza.
Penso che questo libro faccia parte dei must read, perché, anche se pensiamo di sapere già tutto su Frankenstein, questo romanzo riuscirà a stupirci a dirci qualcosa che non sapevamo e a darci molto in termini di emozioni.
Non perdetevelo e, dopo averlo letto, guardate Frankenstein Junior, ne apprezzerete ancor di più la genialità dopo aver letto il romanzo.
Buona lettura!

Titolo: Frankenstein
Autrice: Mary Shelley
Traduzione: Luca Lamberti
Casa editrice: Einaudi
Pagine: 250

Titolo: Lo strano caso del Dr. Jekyll e Mr. Hyde
Titolo originale: The Strange Case of Dr. Jekyll and Mr. Hyde
Autore: Robert Louis Stevenson
Traduzione: Luciana Piré
Casa Editrice: Giunti editore
Pagine: 144
Lo strano caso del Dr. Jekyll e Mr. Hyde di Robert Louis Stevenson è certamente il romanzo per eccellenza del doppio psicologico, la storia di Doppelgänger (dualità della natura umana) più nota e famosa. La trama di questo romanzo è talmente nota che sono sicura che anche chi non l’ha letto la conosce, perciò non temo troppo gli spoiler. Prometto, tuttavia, che anche se ci fosse ancora qualcuno che non l’avesse letto (rimediate subito, correte a leggerlo!), sarò clemente e non vi rovinerò il libro.
Che succede al Dottor Jekyll?
Siamo in una Londra cupa e misteriosa, Mr. Utterson, stimato avvocato appartenente all’alta borghesia londinese, è preoccupato per l’amico Dr. Jekyll, le cui frequentazioni paiono essere, di recente, poco raccomandabili. Il Dottor Jekyll, anch’egli facente parte dell’alta borghesia londinese, ne incarna tutte le qualità e le virtù. È un uomo magnanimo, un filantropo, un positivista, non accetta nulla che non sia corroborato dai fatti (e in questo mi ricorda molto Tempi Difficili di Charles Dickens), ha un’educazione ineccepibile, insomma, è un perfetto membro della società vittoriana. Pare dunque molto strano all’amico Utterson il comportamento degli ultimi giorni.
Jekyll si è fatto più cupo e silenzioso, quasi depresso, non invita più gli amici come un tempo, non si fa più vedere come prima. Tutto questo è iniziato con la strana frequentazione con quello che lui sostiene essere un nuovo amico, un tal Mr. Hyde. Chi ha avuto modo di vedere (o intravedere) Hyde, non riesce a descriverlo se non attraverso le impressioni che suscita. Hyde è un omofono di “hide” che in inglese significa nascondere, nascondersi e infatti Mr. Hyde deve rimanere nascosto, perché incarna il male (“pure evil”, il male assoluto), un istinto malvagio privo di ogni remora.
“L’altro me stesso”
Ma Hyde non è banalmente l’opposto di Jekyll, è una parte di lui, incarna le sue pulsioni represse, quelle che non mostra, che non può mostrare perché non si addicono ad una persona come lui, ma che esistono in lui e spingono sempre più per uscire. Essere Hyde per lui significa finalmente dare spazio alla trasgressione sociale, mentre rimanendo Jekyll sente sempre meno soddisfazione, sempre meno appagamento. Diventare Hyde gli provoca senso di colpa, vergogna, repulsione, ma prova anche una grande gioia, quella gioia data dall’essersi lasciato alle spalle la gabbia della religiosità. Si sente libero, felice alleggerito dal fardello della coscienza. Quando Hyde non c’è gli manca e questo lo rende depresso e sconsolato.
Tuttavia, l’altro se stesso, inizialmente piccolo e tarchiato, mano a mano cresce e rischia di prevaricare. Le trasformazioni sono sempre più involontarie. L’ultima trasformazione è per lui un disperato tentativo di liberazione.
Due facce della stessa medaglia
Jekyll appare a un tempo vittima e carnefice, buono e cattivo, ragione e istinto. Due facce della stessa medaglia, due lati dello stesso cubo, due volti della stessa anima.
Le due parti che si agitavano in me erano di una estrema serietà: ero parimenti me stesso sia quando, evitando ogni misura, sprofondavo nella vergogna, sia quando, alla luce del giorno, mi impegnavo nel progresso della scienza e nell’alleviare le sofferenze del mio prossimo.
Accanto al tema dell’identità sdoppiata e della prigionia, anche quello del progresso della scienza è cruciale nel romanzo di Stevenson, il quale cerca di collegare le aspirazioni sociali e morali con quelle scientifiche. Come accade, però, anche in Frankenstein, l’anelito verso la scienza finisce per portare a compimento un piano diabolico. In Frankenstein è un eccesso di hybris (quella tracotanza che porta a sopravvalutare le proprie forze) a portare lo scienziato a fare quello che ha fatto, in Lo strano caso del Dr. Jekyll e Mr. Hyde è un eccessivo anelito al bene e all’irreprensibilità morale a portare Jekyll a servirsi della scienza. In entrambi i casi l’effetto sarà disastroso.
Furono la mia stessa persona e l’ascoltare la mia parte morale che mi insegnarono a riconoscere la precisa, primitiva dualità dell’uomo. Ho visto che il conflitto delle due nature nell’ambito della mia coscienza, anche se io potevo giustamente dire di essere o l’una o l’altra, aveva luogo perché, nel profondo, io ero entrambe.
La dualità dell’animo umano
La grande forza di questo libro sta proprio nel suo messaggio, che Stevenson convoglia con uno stile chiaro e asciutto, ed è così bravo che ci sono scene che anche a leggere questo libro nel ventesimo secolo si rischia di saltare sulla sedia (ad esempio quella dell’irruzione di Utterson nel laboratorio di Jekyll). Il messaggio (che da allora è stato ripreso da più parti) è che l’animo umano è duale, è un mix di buono e cattivo, di bello e brutto, di bene e male; separare le due parti è pressoché impossibile. È importante accettare questa dualità e nutrire la parte di noi che riteniamo la migliore, senza tuttavia dimenticare che esiste l’altra.
Considero Lo strano caso del Dr. Jekyll e Mr. Hyde come un must read, un classico da leggere assolutamente, quindi fatevi un grande regalo: leggetelo!
Qualcuno dice che Le affinità elettive è il romanzo migliore di Goethe. Io non lo so, ma sicuramente è un romanzo nel quale ogni parola sembra essere stata molto ben pensata e calibrata, dove tutto sembra essere stato scritto con uno scopo e un compito preciso. Il talento di Goethe è indiscutibile e in questo romanzo si vede tutto.
I personaggi de Le affinità elettive
I protagonisti principali sono quattro: Edoardo, Carlotta, Ottilia e il Capitano. Ognuno con le proprie caratteristiche specifiche, ognuno diverso, ognuno che finisce per essere vittima di un destino di cui credeva d’esser l’artefice.
Edoardo
Edoardo è un ricco barone non più giovanissimo, ma comunque nel fiore della sua età virile. È un uomo impetuoso ostinato e pasticcione; prende decisioni precipitose dettate dall’istinto, che spesso si rivelano però rovinose. Ma è anche generoso e coraggioso,e un innamorato appassionato, suscettibile e facile agli scatti, ma sempre cortese.
Carlotta
Carlotta è la moglie di Edoardo, ma non si fida di lui come amministratore del patrimonio. Ponderata e riflessiva, vuole amministrare lei la casa e le proprietà,pur non avendone le competenze. Ogni sua decisione, pur se apparentemente ponderata, influisce su su qualcuno o qualcosa spesso in modo negativo, ma è sincera e onesta. Fa molti errori evidenti, ma l’amore tira fuori da lei emozioni che normalmente è abituata a celare.
Capitano
Il suo nome è Otto, ma verrà chiamato il Capitano. È un amico di gioventù di Edoardo ed è descritto come un brav’uomo. È una persona altruista, ma si sente solo e senza occupazione, nonostante l’evidente talento. Nonostante il suo essere discreto, il suo arrivo scombinerà non poco gli equilibri del castello. Si dimostrerà per tutto il tempo un uomo preparato e concreto.
Ottilia
Ottilia è la nipote di Carlotta, è una ragazza giovane e bella, ma apparentemente senza alcuna inclinazione. A scuola è lenta ed è l’ultima della classe, a differenza di Luciana, la figlia di Carlotta, che eccelle in ogni cosa che fa. L’amore la rende più sicura, ma rimane sempre una ragazza dolce e amabile. Alla fine, io penso la si preferisca all’apparentemente perfetta Luciana, che però è capricciosa ed egoista, oltre che volitiva e pettegola. Parteggia sempre per l’amato, perché “L’odio è partigiano, ma l’amore lo è ancora di più”. Tuttavia, è ingenua e spesso commette degli errori
Le affinità elettive
Cosa siano queste affinità elettive ce lo spiega lo stesso autore,in una discussione tra Edoardo, il Capitano e Carlotta. Partendo da qualcosa che accade nel mondo fisico, arrivano a spiegare anche le relazioni nel mondo umano. In entrambi i casi gli elementi che si sono provvisoriamente uniti, tendono a sciogliersi da questa unione per andare verso l’elemento da cui sono più attratti.
Quelle nature che, una volta incontratesi, si compenetrano e si influenzano reciprocamente, noi le definiamo affini.
Edoardo e Carlotta si sono incontrati e innamorati in gioventù, ma sono stati entrambi costretti a matrimoni di convenienza. Si sposano, però, in seconde nozze e sembrano felici, almeno finché non decidono, sotto la pressione di Edoardo, di prendere in casa un vecchio amico di quest’ultimo, il Capitano. A seguire arriverà anche Ottilia, la nipote di Carlotta che sembra non avere ancora trovato un suo posto, una sua attitudine. L’arrivo dei due scombussolerà la vita e i ritmi di Edoardo e Carlotta e li porterà a decisioni non sempre sagge e ponderate.
Siamo capaci di sacrifici inenarrabili: eppure se si presenta una autentica, precisa occasione, quegli stessi sacrifici si trasformano in qualcosa che non siamo in grado di compiere.
Un romanzo d’amore, ma non romantico
Le affinità elettive è un romanzo d’amore, ma il mondo che Goethe descrive è l’opposto di quello romantico. Non che l’autore volesse necessariamente polemizzare con i romantici, ma in questo mondo le cose vanno diversamente. E la donna è diversa, rispetta a quella del Romanticismo. Qui è una donna che sbaglia tanto quanto e a volte più degli uomini e tutto è più triste e incerto.
L’amore è fatto in questo modo: lui solo crede d’avere ragione e qualunque altra forma di diritto, in sua presenza, svanisce.
Edoardo diventa come un bambino quando gli si impedisce di fare ciò che vuole e rimane ferito per cose anche molto futili, capricci, “tutto quanto lo divertiva, lo rendeva allegro doveva essere considerato con delicatezza da parte degli amici.”
Carlotta vuole, nella sua razionalità, ristabilire le cose, vorrebbe tornare indietro, recuperare il rapporto con Edoardo, mentre quest’ultimo è come un bambino a cui viene sottratto il giocattolo.
Al contrario di lui, Carlotta sapeva meglio attraversare queste prove, in virtù della profondità del proprio sentimento. Era assolutamente consapevole, nel suo intimo, di dover rinunciare a un affetto bello e nobile.
Una lezione di stile
In questo romanzo Goethe riesce a dire con uno stile alto e aggraziato anche le cose più terribili, usa le parole a suo completo piacimento, inserendo tra le vicende anche il suo pensiero, i suoi ammonimenti. All’apparenza sembra quasi voler proteggere i personaggi, descrivendo le loro disgrazie in modo delicato e gentile, quasi che si potessero spezzare ad usare parole più dure; anche per il lettore sembra avere una certa attenzione, spiega per bene tutto ciò che accade e non manca di segnalare al lettore quali sono i segni premonitori di ciò che sta per accadere che invece i personaggi non notano per nulla. Quello che Goethe fa in realtà è decidere dei personaggi e del loro destino come più gli aggrada, di sperimentare con i personaggi e finisce per stupire il lettore.
Se la gente comune, allorché reagisce con sofferenza o disperazione alle più banali contrarietà quotidiane ci strappa un sorriso di compassione, noi siamo soliti, al contrario, guardare con reverenza verso un animo ne quale sia stato gettato il seme d’un grande destino e che, tuttavia, deve ancora attendere l’evolversi s’un simile concepimento e dunque non può, non deve mettere fretta né al bene né al male, né alla fortuna né alla sventura che ne possono scaturire.

Titolo: Le affinità elettive
Titolo originale: Die Wahlverwandtschaften
Autore: Johann Wolfgang von Goethe
Traduzione: Umberto Gandini
Casa editrice: Fetrinelli
Pagine: 336
LARA

Leggo sempre e ovunque, mi faccio trasportare dalle storie e divento più ricca e più vera ogni volta.