Questo libro tratta un tema scottante, in special modo in questo periodo: quello dell’arrivo di migranti sulle coste italiane e del ruolo delle ONG hanno in questo processo. Elena Stancanelli, autrice di svariati romanzi e racconti, e collaboratrice di vari quotidiani tra cui La Repubblica, decide un giorno di imbarcarsi su una di queste navi. Le ragioni sono svariate e diverse, ma, come dice lei stessa all’inizio del libro, la decisione nasce dall’appello di Sandro Veronesi sul Corriere della Sera apparso il 9 luglio 2018 (clicca qui per leggere l’articolo).

Questo libro tratta un tema scottante, in special modo in questo periodo: quello dell’arrivo di migranti sulle coste italiane e del ruolo delle ONG hanno in questo processo. Elena Stancanelli, autrice di svariati romanzi e racconti, e collaboratrice di vari quotidiani tra cui La Repubblica, decide un giorno di imbarcarsi su una di queste navi. Le ragioni sono svariate e diverse, ma, come dice lei stessa all’inizio del libro, la decisione nasce dall’appello di Sandro Veronesi sul Corriere della Sera apparso il 9 luglio 2018 (clicca qui per leggere l’articolo).

Veronesi scrive un appello accorato soprattutto alle persone influenti affinché “ci mettano il corpo”, affinché cioè vadano “laggiù dove lo scempio ha luogo”, proprio lì, sopra le navi delle tanto vituperate ONG. Perché quanto accade nel Mediterraneo gli fa male, e ancor più male gli fa la propaganda che c’è intorno agli arrivi dalle coste libiche, una propaganda che “rovescia la realtà chiamando ‘pacchia’ o ‘crociera’ la tortura cui quegli esseri umani sono esposti”. Questo per Veronesi è inaccettabile, e pensa che, forse, se ci saranno delle persone influenti che ci metteranno il corpo, che andranno laggiù e saranno testimoni di quanto davvero succede, qualcosa possa cambiare.

Parto o non parto?

Veronesi chiama e la Stancanelli risponde, e non è certo l’unica. Decide d’istinto di imbarcarsi, di metterci il corpo, pentendosene tuttavia subito dopo. Perché lei è una che “se ne sta a casa a studiare e scrivere, anziché metterci il corpo”. Perché è inesperta, non è mai stata su una barca prima. E spesso prima e durante quest’avventura si chiederà se ha fatto bene a farlo, si chiederà ‘ma cosa ci faccio io qui?’, sarà attanagliata dalla paura, dalla voglia di girare sui tacchi e tornarsene nel tepore del suo appartamento, dove nulla di male può succedere, coccolata dalla comodità e protetta da quelle quattro mura che rappresentavano, in un certo senso, la sua frontiera.

Eppure parte. Si imbarca, insieme ad altri giornalisti e a giovani volontari, sulla Mare Jonio, un rimorchiatore che è stato attrezzato per il salvataggio dei migranti in mare. Senza mai smettere di sentirsi inadeguata, senza mai smettere di avere paura, senza mai smettere di sperare, fino all’ultimo, che salti tutto, lasciandole solo la bella sensazione di aver provato a salvare il mondo.

“Ho rispetto dell’odio, come di qualsiasi altro sentimento. Odiamo i nemici e qualche volta anche gli amici, gli amanti e soprattutto gli ex amanti. Odiamo chi è diverso da noi, chi è più ricco  persino chi è più povero. Contro chi è più povero, più indifeso, il nostro odio scintilla addirittura. Io odio. Certi giorni con una potenza che mette paura anche a me.”

Quello di cui la Stancanelli vuole parlare in questo libro non è ciò che si nasconde nel cuore degli esseri umani, bensì come la civiltà a cui apparteniamo assolve (o non assolve) il compito di tutelare i diritti di ogni singolo individuo, migranti inclusi.

Cosa c’è da sapere 

Prima di partire con lei in viaggio sul Mediterraneo, la Stancanelli ci ricorda di come il linguaggio della politica sia cambiato con l’avvento di Matteo Salvini. Cinismo e crudeltà del lessico sono diventati la norma, di conseguenza ora nessuno si scandalizza più, e normali sono diventate anche la violenza e l’ignoranza gettate dai social in faccia a chiunque dissenta. La propaganda social fatta nel modo più becero e nella più totale impunità. Matteo Salvini ha fatto dei migranti la sua battaglia principale e ha avviato una vera e propria crociata morale contro le ONG, ree, a suo dire, di traffico di esseri umani.

Anche Amnesty International è intervenuta contro questa “valanga incontenibile di mostruosità” dapprima con un’azione dal titolo ‘La solidarietà non è un reato’, che in seguito è stata inserita all’interno della campagna ‘Spazi di libertà’, e in seguito creando una task force che si occupa di discorsi d’odio.

Non possiamo inoltre imbarcarci senza sapere esattamente com’è la situazione normativa in merito ai salvataggi in mare. Scopriamo quindi cosa è stato stabilito dall’Accordo dell’Unione Europea sull’immigrazione nel giugno del 2018, cosa sono le zone SAR, cosa prevede l’accordo noto come Codice Minniti, in cosa consisteva l’operazione Mare Nostrum, sostituita poi dall’operazione Triton, cosa prevede il diritto del mare, di chi è la giurisdizione dei porti e anche cosa c’è veramente dietro alla guerra alle ONG lanciata da Salvini sotto il “lugubre hashtag” #chiudiamoiporti. Salvini comunica col paese allo stesso modo e con gli stessi toni sia che parli della fetta di pane e Nutella, sia che parli di migranti morti in mare. Ha un modo di comunicare informale, confidenziale addirittura, e sembra così ‘paterno’ che molte persone non si preoccupano di verificare che quello che dice sia vero,  di capirne fino in fondo le implicazioni.

Come si sta veramente su una delle navi delle ONG

 

“Se stai davvero dall’altra parte, non puoi dire aiutiamoli a casa loro. Perché aiutiamoli a casa loro non è la frase giusta da dire mentre anche una sola persona sta affogando in mare. A meno che tu non consideri trascurabile che qualcuno affoghi, anche una sola persona. E allora il tuo ragionamento non è molto diverso da chi dice lasciamoli crepare, così gli altri capiranno”

Insomma, siamo pronti per partire con lei, e con lei viviamo anche l’ansia, la paura, il timore di essere troppo piccola e inadeguata per qualcosa del genere. Con lei viviamo il rapporto con i volontari, che sono “persone speciali, ma tutti un po’ strani. Brillanti, intelligenti e un po’ matti.” E i volontari hanno molto da raccontare, demoliscono stereotipi, forniscono spiegazioni, danno informazioni, senza filtri, come solo le persone che lavorano sul campo e vedono coi loro occhi sanno fare.

Sulla nave scopriamo quali sono le conseguenze della guerra contro le navi delle ONG. Anche se è vero che i porti non sono chiusi (perché i porti semplicemente non possono essere chiusi, se non in situazioni molto particolari di problemi di ordine pubblico), si è comunque creato un sistema di deterrenza. Le navi hanno il diritto di entrare senza dover chiedere il permesso, ma non lo fanno perché hanno paura delle ritorsioni sulle persone.

Il soccorso è qualcosa di molto tecnico, fatto di azioni precise e meccaniche. Non si sceglie chi salvare, si va e basta. Non c’è tempo per altro. E quando le persone salgono sulle navi raccontano, e dai loro racconti raccapriccianti non si torna più indietro.

La Libia e i migranti

Bisogna capire che cos’è davvero la Libia. Lì, le persone non sono solo rinchiuse, trattate come schiavi, picchiate e fatte prostituire. Le donne vengono stuprate più e più volte, spesso abortiscono a causa di continui calci e pugni sulla pancia. Le torture sono inenarrabili, la violenza è inaudita. Gli uomini vengono costretti a combattere contro alti uomini fino a che uno dei due non muore. Cose inimmaginabili.

“Cosa sarà di tutte queste persone? Noi le salviamo, facciamo in modo che non affoghino, ma poi? Come supereranno l’orrore? E come riusciranno a perdonarci quando capiranno che la Libia l’abbiamo inventata noi, finanziata noi per fermare i flussi migratori?”

Non si può smettere di salvare le persone, farlo significherebbe smettere di essere umani, abbiamo il dovere, in quanto esseri umani, di salvare i nostri simili da morte certa. Non possiamo e non dobbiamo farci influenzare da chi ci vuole convincere che lasciar morire i migranti possa essere un deterrente. Lasciar morire delle persone è semplicemente questo: disumano.

“Chi salva la gente che affoga ha ragione, chi pensa che lasciare affogare centinaia, migliaia di uomini, donne e bambini perché questo potrebbe disincentivare altri uomini, donne e bambini dal lasciare la disperazione e partire, sbaglia”

Perché si scagliano contro le ONG?

E non è certamente questa, secondo l’autrice, la ragione per cui il governo contrasta il lavoro delle ONG nel Mediterraneo. La vera ragione per cui lo fa è che questa strage non deve avere testimoni, le ONG non devono vedere e non devono mostrare, perché solo in questo modo nessuno crederà che si stia davvero compiendo una strage.

E nonostante tutti i suoi timori, capisce che non solo lei non è un intralcio (nonostante la sua inesperienza), ma che, al contrario, queste associazioni hanno bisogno di loro, hanno bisogno di visibilità, di qualcuno che veda e racconti ciò che realmente succede. E capisce che ha una missione importante, una missione che tanti altri non hanno avuto il coraggio di intraprendere, soprattutto per la paura di attirare l’odio della rete. La paura più grande dei personaggi famosi italiani riguardo alla questione dei migranti sono gli haters. Mi chiedo, davvero questa può essere una valida ragione per non schierarsi dalla parte della vita? Come può essere che dei fan virtuali siano più importanti di vite reali?

“…i bruti restano sguarniti di fronte a chi si rivolge loro trattandoli da persone perbene. Si sperdono, balbettano, abbassano lo sguardo.”

La legge della vita (migranti o non migranti)

E chi è in mare alla fine non si preoccupa né della politica, né della celebrità, pensa solo a salvare vite umane, perché “il soccorso in mare è soprattutto la possibilità di offrire un posto dove stare, una coperta e u bicchiere d’acqua. Questo è quello che possiamo fare.” E lo fanno anche quando vengono ostacolati, quando vengono depistati con false segnalazioni in modo da farli allontanare, lo fanno anche quando tutto sembra perduto. E lo fanno senza fare distinzioni tra migranti, richiedenti asilo, rifugiati. 

Tutti dovremmo leggere questo libro, ma soprattutto dovrebbe leggerlo chi pensa che le ONG lavorino in combutta con gli scafisti libici, chi prende come oro colato tutto quanto esce dalla bocca senza filtri né remore di certi nostri politici, chi è convinto di sapere tutto sulle persone che scappano dalla Libia, anche se non hanno mai parlato una volta con uno di loro, chi si riempie la bocca di facili e inutili parole su qualcosa di cui sa poco o nulla.

“La cosa più importante che ci insegnano i morti è che siamo tutti uguali”.

 

 

 

Titolo: Venne alla spiaggia un assassino

Autrice: Elena Stancanelli

Casa editrice: La nave di Teseo

Pagine: 200

Come si è arrivati alla rivoluzione siriana?

La Siria era sempre stata una punta di diamante del Medio Oriente, per la sua cultura, per le attrazioni, ma è un paese dalla storia politica tormentata. Dopo una breve parentesi repubblicana tra il 1934 e il 1949, iniziano colpi di stato e dittature (la prima, appunto, nel 1949). Ba’th (che significa resurrezione), partito arabo socialista panarabista va al potere nel 1963. All’interno di questo governo Hafez Al-Assad diventa ministro della difesa. Coerentemente con quanto stava già accadendo in altri paesi del mondo arabo, come l’Iraq e la Libia, nel 1970 Assad  instaura una dittatura personalistica e famigliare, basata sul culto della persona. Iniziano tempi difficili per la Siria, soprattutto dopo che il regime di Assad decise di appoggiare l’Iran nella guerra iniziata da Saddam Hussein. Furono anni in cui, in nome di una Siria islamica, si organizzavano sommosse e attentati, con l’unico scopo di eliminare la minoranza alawita.

Nel 1982 ci fu una terribile strage nella quale vennero uccise dalle venti alle quarantamila persone ad opera dei bombardamenti dell’aviazione siriana. Il resposabile fu Rifaat al-Assad, fratello di Hafez. Nessuno si curò di ciò che stava accadendo, Rifaat al-Assad non fu mai condannato e l’episodio successivamente sparì anche dai libri di storia.

Bashar al-Assad

Nonostante tutto, la dittatura di Hafez al-Assad venne percepita quasi come buona (così veniva del resto spacciata dal regime stesso). Quando Hafez morì nel 2000, molte speranze furono riposte nel giovane Bashar al-Assad, il figlio, perché avviasse un processo democratico. Speranze evidentemente mal riposte. Il regime iniziò fin da subito con repressioni, persecuzioni e arresti.

Nel regime di Bashar al-Assad si instilla quella che venne successivamente chiamata “la primavera araba”, un movimento partito dalla Tunisia e arrivato in molti paesi arabi chiedendo libertà. Nel 2011 sull’onda del movimento tunisino, scoppia la rivoluzione siriana, che chiede libertà e democrazia. Il governo fa intervenire immediatamente l’esercito, il quale agisce in maniera scellerata anche sui bambini.

“Purtroppo saranno proprio i bambini gli involontari protagonisti della rivoluzione siriana: da loro, dal loro calvario, fatto di torture e martirio, è nato il coraggio di non tornare indietro, fino alla caduta del regime. La tragedia dei bambini siriani ha segnato, nell’arco della rivoluzione, i punti di svolta della crisi.”

La rivoluzione siriana

Mi sono avvicinata a questo libro spinta dalla curiosità di leggere qualcosa di più preciso sulla rivoluzione siriana rispetto a quanto si trovi sui media. Purtroppo oggi la situazione in Siria è di gran lunga peggiore di quella raccontata da Hamadi in questo libro-testimonianza. Sono trasorsi sei anni dall’uscita di questo libro. Sei lunghi anni durante i quali tutti i siriani che hanno potuto sono fuggiti, rifugiandosi per lo più nei paesi limitrofi, soprattutto Turchia, Libano e Giordania. Per approfondimenti su questa situazione vi invito a leggere i dati di Amnesty International qui.

In questo libro Hamadi ripercorre, con sguardo lucido e attento, le tappe della rivoluzione siriana fino al 2013. Dalle sue parole traspare grande ammirazione per un popolo di natura pacifista e ottimista, che affronta le violenze del regime di Bashar al-Assad con proteste pacifiche e cantando canzoni e inni patriottici. Lo stesso Hamadi, siriano per parte di padre, è un pacifista e un attivista per i diritti umani in Siria. Non è un caso, infatti, che nell’introduzione, accanto a quello di Dario Fo, compaia un contributo di Riccardo Noury, portavoce ufficiale di Amnesty International Italia.

La famiglia Hamadi

Hamadi racconta fra le righe anche la storia del padre e del suo esilio dalla Siria, che è stato poi motivo del divieto allo scrittore di entrare nel paese fino al 1997. Mohamed Hamadi, padre di Shady, era attivista del partito nazionalista arabo nel distretto di Homs. Considerato un oppositore politico del regime, fu costretto a fuggire nel 1968. Il dolore di quello che ha subito nelle carceri siriane e quello dell’esilio forzato è ancor oggi vivo in lui. A distanza di cinquant’anni, di notte ancora grida, scosso dagli incubi.

“Avevo dovuto aspettare una vita prima di rimettere piede in quella terra, ed ero deciso a coglierne ogni sfumatura; ero deciso a scoprire chi ero e da dove venivo; ero desideroso di conoscere il segreto che mio padre si era portato dentro per tutta una vita e i misteri che si nascondevano in questo Paese addomesticato talmente bene, da renderci sordi alle grida delle migliaia di disperati rinchiusi nelle prigioni sotterranee. Un Paese così bello e affascinante da celare la sua malvagità più intrinseca e letale.”

Hamadi, come il popolo siriano, è un ottimista e, all’epoca della stesura del libro, era convinto che il popolo siriano avrebbe vinto, che la dittatura sarebbe stata sconfitta e che la felicità araba si sarebbe potuta realizzare.

“La felicità araba può nascere solo dalla sconfitta della dittatura siriana, perché la Siria è stata e continuerà ad essere la culla del pensiero arabo e quando i suoi abitanti si toglieranno le catene del totalitarismo, allora, e solo allora, il mondo arabo tutto troverà in questo Paese la fonte della sua rinascita. […] La felicità araba sorgerà dalle ceneri della Siria come una Fenice per rappresentare l’unità di un popolo in una patria, a prescindere dalla fede e dai credi religiosi.”

La situazione attuale

Purtroppo, però, non sembra affatto che le cose vogliano andare come sperava Hamadi. Al contrario, le ceneri dalle quali sarebbe dovuta risorgere la Fenice stanno ricoprendo tutta la Siria e oramai il popolo siriano non sembra aver più una patria dove si possa vedere rappresentata quell’unità di cui parla Hamadi.

Alla luce anche degli ultimi sanguinosi fatti, siamo purtroppo nella condizione di considerare la Siria una terra desolata di profughi e sangue, dove la priorità è ora cercare di far sopravvivere coloro che ancora sono lì.

La felicità araba sembra ancora molto, molto lontana.

Le testimonianze che Hamadi porta in questo libro lo arricchiscono. Le storie di Abo Imad, di Eva Zidan e delle altre donne della primavera siriana, di Alexander Page (pseudonimo di Rami Jarrah), di Hashem ci aiutano a vedere le cose coi loro occhi, a capire forse un po’ di più cosa potremmo fare noi per aiutare questo popolo.

“La diseducazione di massa portata avanti dal regime è riuscita a far accettare che , per avere uno Stato sicuro, la libertà debba necessariamente venir meno.”

Il più grande problema della Siria ora è che, forse, noi occidentali ci siamo abituati a sentir parlare di questa guerra e di queste sofferenze, e quasi non ci facciamo più caso. Siamo bombardati ogni giorno da informazioni che arrivano da ogni dove e rischiamo di diventare insensibili, o quasi, al grido di sofferenza degli altri.

“Perché ancora oggi ci è difficile interessarci del dolore umano quando non è il nostro?”

Una riflessione sulla famiglia

C’è un’ultima cosa molto interessante che Hamadi dice in questo libro. Prima di pensare di appropriarsi del concetto di democrazia, il popolo siriano necessita di fare dei cambiamenti in seno alla concezione di famiglia. I genitori devono crescere figli liberi di poter esprimere le loro opinioni, senza la paura di un padre-padrone che istilla il rispetto attraverso il timore. Le donne non devono più avere un ruolo marginale e in famiglia si deve poter discutere liberamente. In caso contrario, i figli continueranno a costruire società basate su questo modello.

“Perché la cultura della democrazia nasca è essenziale che le famiglie arabe si de-strutturino e ci sia un dialogo paritario tra padre, moglie e figli. Non deve più esistere una voce più alta e indiscutibile, alla quale i figli non possano opporsi.”

Leggiamo questo libro, leggiamo libri come questo, perché ci aiutino a formarci una coscienza critica rispetto ad altre società e soprattutto rispetto a quello che succede nel mondo. È importante guardare le cose da più di un prospettiva, vedere i fatti vengano da diverse angolazioni. Ed è importante sapere cosa succede nel mondo. Come già riportavo nella recensione di Tre serbi, due musulmani e un lupo di Luce leone “non sapere non è né un delitto, né un diritto, ma non voler sapere è il peggiore dei delitti” (clicca qui per leggere la recensione) Rischiamo, altrimenti, di venire risucchiati dall’atmosfera d’odio e di discorsi sprezzanti che pervadono la comunicazione degli ultimi tempi, senza avere la minima idea di come le cose stiano realmente.

Titolo: La felicità araba

Autore: Shady Hamadi

Casa editrice: Add editore

Pagine: 252

La trama

Siamo nella primavera del 1992, in una cittadina della Bosnia nord-orientale, Prijedor divenuta poi tristemente famosa per i suoi campi di concentramento e di sterminio. A Prijedor vivono cinque amici tredicenni: Jelena, ragazzina serba dal fisico atletico e dagli occhi nerissimi, che abita con la nonna e con un Lupo, Vuk, in una casa lungo il fiume; Emina e Faris, due gemelli di famiglia musulmano-bosniaca, che di islam però non sanno nulla, in quanto famiglia non praticante; Zlatan, appartenente ad una famiglia di serbi ultranazionalisti seguaci di Karadžić; e infine Milorad, detto Milo, un ragazzone di 1 metro e 85 per 90 kg, dotato di una forza prodigiosa, ma con una mente molto semplice e un problema di balbuzie. 

I cinque ragazzi sono molto amici e sono soliti incontrarsi lungo il fiume, a casa di Jelena, costretta a crescere in fretta dopo la morte della madre e la fuga del padre.

Jelena ha un carattere forte e deciso, ha domato Vuk che la considera il suo capobranco e le è fedele come un cane. È solita cacciare piccoli animali con la sua fionda, che usa con una precisione impeccabile e ha una moto con sidecar, lasciatale in eredità dal padre.

Zlatan è un ragazzino sveglio e solare, con una buona parlantina e una testa di capelli lunghi e ricci, costretto, suo malgrado, a convivere un padre e un fratello, Tomislav, detto Tomo, di cui non condivide le idee: in fondo essere serbi o musulmani non ha alcuna importanza per lui. E poi, se la pensasse così non potrebbe accettare che il suo cuore batta così forte quando si trova vicino alla dolce e bellissima Emina.

Milo e la sua mazza da baseball sono inseparabili, Zlatan pensa che Milo con il suo fisico dovrebbe dedicarsi al pugilato, ma lui ama il baseball e il suo gruppo di amici per lui è tutto. Loro lo proteggono anche dai compagni che si burlano di lui, perché è una mente troppo semplice e un cuore troppo buono. Nonostante la stazza non farebbe male a una mosca.

Sono tredicenni come tanti, con le loro passioni, gli amori e gli umori, la scuola, gli amici, la famiglia. Ragazzi come tanti, appunto. Fino a quella maledetta primavera del 1992. È l’anno che segna uno spartiacque per la Bosnia. E si percepisce. C’è qualcosa nell’aria. Qualcosa sta cambiando. Il cielo sta diventando nero. Ancora non si riesce a capire cosa sia, ma si comincia a vedere gente strana, uomini russi e serbi arroganti e prepotenti. Chi sono? Cosa sta per succedere?

“L’odio è l’unico rifugio dove trovare riparo per evitare di venire schiacciati dalla vergogna” 

I campi di concentramento e le torture

La storia che raccontano Leone e Zanon è di fantasia, ma la cornice nella quale è ambientata è reale, anzi realissima. Se Jelena, Milo, Emina, Faris e Zlatan sono personaggi di fantasia, non lo è a guerra, non lo è la pulizia etnica, e non lo sono i campi di concentramento di Trnopolje e di Keraterm, e il campo di sterminio di Omarska.

È la primavera del 1992 quando a Prijedor si scatena l’inferno. Inizia la pulizia etnica, la serbizzazione dell’area. E iniziano a funzionare i terribili campi di concentramento. Una pagina nera della storia della ex-Jugoslavia: i campi di Prijedor, dove sono state detenute, torturate e uccise circa tremila persone, erano strumenti importanti del progetto di pulizia etnica, parte integrante del quale era lo stupro etnico ai danni di donne e bambini, ma a volte anche di uomini non serbi. L’umanità che si disumanizza, persone che diventano macchine per uccidere, senza pietà.

“Del resto, nessuno di loro era lì per servire davvero una causa. La religione. L’etnia. Tutte menzogne. Solo scuse. Erano lì per esercitare il potere. Per quel brivido che ne derivava. Per essere onnipotenti. Immortali, addirittura, fosse anche per qualche giorno. E ricchi.”

E il potere lo hanno esercitato senz’altro, e piuttosto indisturbati, soprattutto dopo che l’allora segretario delle Nazioni Unte Boutros Boutros-Ghali aveva negato l’invio di caschi blu nell’area di Prijedor. La comunità internazionale finge di non sapere e intanto i non serbi vengono sterminati. I numeri parlano da soli: nella sola zona di Prijedor “oltre trentamila persone internate, oltre cinquantamila perseguitate a vario titolo, 3.173 civili uccisi, tra cui almeno 102 minori e oltre 250 donne, ma i numeri sono quasi certamente più pesanti.” Numeri pesanti, ingiustizie perpetrate nella più totale impunità e per le quali centinaia, forse migliaia di persone non hanno ancora pagato. La giustizia non ha offerto che le briciole ai sopravvissuti.

Leone e Zanon riescono in un’impresa decisamente ardua, scrivere di questi avvenimenti così truci in modo tale che anche i più giovani possano leggerne. Sì, perché questa è letteratura per ragazzi, in cui i protagonisti sono ragazzi, che in una sola stagione sono costretti a diventare adulti. Le loro vicende tengono il lettore col fiato sospeso, commuovono e alla fine ci scopriamo tutti a sostenerli, a sperare con loro, a piangere con loro, a chiederci insieme a loro se abbia un senso quello che stanno facendo. E rimaniamo con loro fino alla fine della storia, che è tuttavia solo l’inizio del dramma della Bosnia-Erzegovina.

Luca Leone e Daniele Zanon

Daniele Zanon è regista e sceneggiatore, e lavora costantemente a contatto coi ragazzi, sia a scuola, che in contesti più critici come i carceri minorili e le comunità di recupero. La sua esperienza è sicuramente un valore aggiunto a questo libro.

Luca Leone è un giornalista esperto di Balcani, che ha fatto tantissima ricerca sul campo. È autore di libri che sono testimonianze importantissime nell’ambito delle guerre nella ex Jugoslavia, quali ad esempio Visegrad. L’odio, la morte, l’oblio, Stebrenica. I giorni della vergogna, Bosnia express, I bastardi di Sarajevo. Grande conoscitore dei Balcani e della loro storia, in questo libro ha superato i suoi confini di documentarista e portatore di testimonianze, per entrare nel campo della letteratura e lo ha fatto con ottimi risultati.

Mi auguro che questo libro finisca sui banchi di scuola, perché di questo se ne discuta in classe, perché è importante che anche i ragazzi sappiano quello che è successo in un luogo e in un tempo così vicini a ni. Perché, come dice lo stesso Leone in Visegrad. L’odio, la morte, l’oblio:

“Non sapere non è né un delitto, né un diritto. Non voler sapere è il peggiore dei delitti.”

 

 

Titolo: Tre Serbi, Due Musulmani e Un Lupo

Autori: Luca Leone, Daniele Zanon

Casa Editrice: Infinito edizioni

Pagine: 294