Il Signore delle Mosche è il romanzo più conosciuto di William Golding, autore britannico noto soprattutto grazie a questa sua prima opera, nonostante la sua produzione letteraria non sia fermata qui. Potrebbe sembrare solo un libro per ragazzi, ma questo romanzo in realtà è molto di più.

Lost

Come nella famosissima serie televisiva Lost, in cui, tra l’altro, questo romanzo viene citato dal notissimo personaggio James Ford, detto Sawyer, un aereo si schianta su un’isola tropicale. Sopravvive solo un gruppo di bambini e di ragazzini. Nessun adulto. Inizialmente sembra quasi un romanzo alla Robinson Crusoe, in cui si fa bella mostra delle capacità inglesi di rimboccarsi le maniche e superare con l’intelletto gli ostacoli cui la natura ci mette di fronte. Invece capiamo ben presto che non è affatto così. Non ci sono abilità e virtù da sfoggiare in quest’isola. E non c’è nessun indigeno, nessun Friday da civilizzare e assoggettare, solo un gruppo di ragazzini costretti a stare insieme per riuscire a sopravvivere in un ambiente che presenta mille insidie. 

Inizialmente il gruppo reagisce dandosi alla pazza gioia, felici di avere un’isola meravigliosa tutta per loro e di poter decidere a piacimento del proprio tempo. Costretti però successivamente a darsi delle regole di convivenza per poter sopravvivere in un luogo in qualche modo ostile e di sicuro privo di comodità e privo di adulti che prendano decisioni e organizzino la vita, il gruppo arriverà alla fine a mostrare la sua vera natura, una natura brutale, per certi verso forse anche malvagia. 

Organizzazione democratica

Inizialmente i ragazzi scelgono democraticamente un capo, Ralph, il quale, aiutato dal fedele e saggio Piggy, assegna dei compiti a ciascuno e convoca regolarmente assemblee. In questo modo il gruppo tenta di darsi una forma all’apparenza democratica. Potrebbe sembrare il trionfo della democrazia e del buon senso inglese, un’organizzazione basata su una equa suddivisione dei compiti per i principali obiettivi di sopravvivenza: andare a caccia, costruire dei rifugi e tenere acceso un fuoco per poter essere avvistati e dunque salvati. Tuttavia, l’isola non è l’Inghilterra e qui non c’è nessun ben comune da preservare. Anche il fuoco, inizialmente così importante, diventa il pomo della discordia, anziché un punto di unione. 

Belzebù, il Signore delle Mosche

Poco a poco l’obiettivo dell’autore diventa chiaro: mostrarci una continua lotta tra bene e male, tra istinti animali e intelletto, a cui i ragazzini rischiano di soccombere. Il buon senso lascia presto il posto all’istinto, spesso animalesco, ed emergono poco a poco e caratteristiche peculiari di ciascuno di loro, acuendo differenze e divisioni. La vanità, l’autoesaltazione e l’istinto di soggiogare prevarranno sull’unità del gruppo e sul bene comune, trasformando l’isola da paradiso tropicale a inferno in terra, desolato e opprimente. 

Il Signore delle Mosche, personificato nel romanzo da una testa di maiale appesa a un palo, altro non è che un altro nome di Belzebù, signore dei demoni, composto da Baal (“signore” in fenicio) e Zebub (“mosche”). Era detto così perché “nemmeno una mosca potrebbe sfuggire ai suoi intrighi” (clicca qui per saperne di più). Questo ci porta alla questione della natura umana. Golding sosteneva la tesi della malvagità intrinseca della natura umana e lo dimostra ampiamente in questo romanzo. 

L’uomo produce il male come le api producono il miele.

Il male è dunque al centro di questo romanzo e ciò che colpisce è la natura malvagia è qui propria anche dei fanciulli, che ancora non sono corrotti dalla malvagità del mondo, a dimostrazione del fatto che questo è insito nella natura dell’essere umano e viene solo tenuto a bada attraverso un convivere comune. I ragazzi, infatti, dopo l’iniziale tentativo di instaurare un sistema pseudo-democratico, si lasciano trasportare da una spirale di violenza, regredendo verso una barbarie quasi primitiva che obnubila loro la mente. I tentativi di riportare le cose a una sorta di ordine naufragano miseramente, come argini deboli di un fiume in piena, e la violenza e la barbarie dilagano senza freni. 

Si tratta di un romanzo forte, con un messaggio ancora più forte, da leggere assolutamente, anche qualora non fossimo d’accordo con la visione di Golding.

Avrei pensato che un gruppo di ragazzi inglesi… Siete tutti inglesi, no?… sarebbero stati capaci di qualcosa di meglio… Voglio dire…

 

Titolo: Il Signore delle Mosche

Titolo originale: Lord of the Flies

Autore: William Golding

Traduzione: Laura De Palma

Casa editrice: Mondadori

Pagine: 277

Amabili Resti è un romanzo che mi ha colpito e allo stesso tempo accarezzato dolcemente, è un romanzo crudele e delicato allo stesso tempo. Da molto tempo aspettava di essere letto, la prima volta che ne sentii parlare era circa quindici anni fa, ma solo ora è finito realmente nelle mie mani, chiedendo a gran voce di essere letto. Non me ne sono assolutamente pentita

Di chi sono gli amabili resti

Susie Salmon ha quattordici anni quando viene stuprata e uccisa da un serial killer, il suo corpo fatto a pezzi e gettato in una discarica. Una vita appena iniziata quella di Susie, tante esperienze ancora da vivere, legami da costruire e rinsaldare. Ma nulla di tutto ciò è più possibile per lei, che ora guarda tutto dal suo Cielo, e dal suo Cielo rimane vicina ai suoi cari. E dal suo Cielo ci racconta ogni cosa. Sì, la storia è raccontata proprio da Susie e noi vediamo tutto attraverso i suoi occhi, sentiamo ciò che sente lei. 

Susie osserva la sua famiglia e i suoi amici affrontare la perdita: un padre distrutto dal dolore che non riesce a rassegnarsi, una madre che, non sapendo come affrontare il dolore, lo fugge e fugge da tutti coloro che le stanno intorno, una sorella nei cui occhi tutti rivedono Susie, un fratellino piccolo che non sa come affrontare qualcosa di più grande di lui e una nonna che, nonostante i problemi con l’alcol, diventa una colonna portante della famiglia. 

Fu soprattutto ora che ricuciva il tessuto della loro vita quotidiana di un tempo, sfidando la propria infermità per riprendersi un momento così, fu soprattutto allora che mio padre divenne il mio eroe.

Una storia delicata

Nonostante il tema sia terribilmente crudo e atroce (lo stupro e l’assassinio di una ragazzina da parte di un omicida pedofilo), la storia è raccontata in modo tenero  e delicato, mai troppo duro e mai volgare. Il punto di vista narrativo è senz’altro originale e la scrittura scorre fluida, ma ciò che ho veramente apprezzato in questo romanzo è la sua vena introspettiva, i moti dell’anima di chi ha perso qualcuno e non sa rassegnarsi a una scomparsa così prematura e violenta, i moti dell’anima di chi, pur nella morte, non riesce a staccarsi dai propri cari e continua a gioire e soffrire con loro e per loro.

Quello che traspare è l’immensa forza che è necessario trovare dentro per riuscire ad andare avanti a dispetto di una tale tragedia, cercando di rimettere insieme i pezzi di una vita che non può fermarsi, nonostante il dolore. E in mezzo a tanto dolore e disperazione c’è amore, molto amore, un amore che diventa salvifico per le anime dei morti e per quelle dei vivi. E proprio questo penso sia il potentissimo messaggio: l’amore supera davvero tutte le barriere e se impariamo a guardare con gli occhi del cuore, tutto diventa possibile, o almeno sostenibile. 

Perché l’orrore sula Terra è reale e accade tutti i giorni. È come un fiore o come il sole, è qualcosa di incontenibile. 

L’autrice

La Sebold è stata lei stessa vittima di stupro, come racconta nel suo Lucky (clicca qui per avere più informazioni sul libro) e questa sua esperienza ha sicuramente influito nel modo che ha scelto di raccontare questa storia. Sa cosa si prova, sa come ci si sente, conosce la paura, è una sopravvissuta che ha dovuto imparare a convivere col dolore e la paura. 

Non ci si accorge che i morti se ne vanno, una volta che hanno deciso di partire.

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Titolo: Amabili Resti

Titolo originale: The lovely bones

Autrice: Alice Sebold

Traduzione: Chiara Belliti

Casa editrice: e/o

Pagine: 345

Outlander è un romanzo della scrittrice statunitense Diana Gabaldon, pubblicato nel 1991, ma tornato sulla cresta dell’onda grazie all’omonima serie televisiva. Si tratta di un romanzo insieme storico e fantasy, con una pennellata di romanticismo. Una storia di quelle che, una volta iniziata, ci trascinano dentro vorticosamente, senza possibilità di uscita. 

Inverness

Claire Randall è un’infermiera militare che la seconda guerra mondiale ha tenuto lontana dal marito Frank per 7 lunghi anni. Nel 1945 si ricongiungono e fanno un viaggio nelle Highlands scozzesi, in una sorta di seconda luna di miele. L’antica città di Inverness è splendida nella sua esplosione di natura e di pace. Frank è un docente di storia a Oxford ed è alla ricerca di informazioni riguardo un suo antenato, mentre Claire si dedica alla sua passione per le piante, e insieme cercano di ritrovare quella serenità di cui la guerra li aveva privati. Ed è proprio la sua passione per la botanica che porterà Claire a scoprire delle pietre antiche che cambieranno di colpo la sua vita. Attirata verso una fenditura tra le antiche pietre di Craigh na Dun, Claire si ritroverà infatti catapultata indietro nel tempo. 

Claire si ritrova dunque violentemente catapultata nella Inverness del 1743, in un periodo di guerre tra Scozia e Inghilterra e prima ancora di rendersi conto di quello che le sta succedendo viene trovata dagli uomini del clan MacKenzie. Sarà l’inizio di una storia fatta di battaglie e pericoli ad ogni angolo, di fughe e contrattempi. Un mondo che non appartiene a Claire, ma come potrà riuscire a tornare indietro?

Outlander è anche una serie TV di grande successo, ma devo confessare di non averla ancora guardata, ma cercherò di rimediare quanto prima!

Un viaggio nel tempo

La Gabaldon ci trasporta letteralmente nella Scozia del Settecento e lo fa in modo magistrale, con una grande abilità di descrivere luoghi, fatti e persone in modo coinvolgente e intrigante. Le descrizioni sono fantastiche, le scene d’azione e suspense messe nei momenti giusti, i personaggi sono forti, passionali, eroici, intriganti. Tutto è descritto con molta precisione e accuratezza, segno di un profondo studio di usi, costumi e abitudini dell’epoca e la storia d’amore che attraversa il romanzo non è assolutamente mielosa o pesante, anzi dona il giusto equilibrio a una storia di scontri, battaglie, feriti, fuggitivi e morti.

L’espediente del viaggio nel tempo è utilizzato con molta delicatezza e grande abilità e nulla ci sembra fuori posto. La Gabaldon è una scrittrice di talento e tutto ciò che ci dona in questo romanzo è meritevole di attenzione. Inoltre scorre così bene che non ci si accorge nemmeno di arrivare alla fine delle oltre 800 pagine. 

La fine naturalmente non è una vera fine, perché questo è solo il primo romanzo di una lunga saga, perciò, anche se ci si sente abbandonati quando si arriva alle ultime frasi, possiamo stare tranquilli, perché la storia continua e io non vedo l’ora di sapere come.

Outlander mi ha catturata e sono sicura che catturerà anche voi!

 

Le sette sorelle è il primo libro dell’omonima saga della scrittrice irlandese Lucinda Riley. L’idea è arrivata dalla leggenda delle sette sorelle della costellazione delle Pleiadi. Ognuna di queste donne mitologiche era una donna straordinaria, forte e unica. Da qui questa serie di romanzi, ognuno dei quali ha come protagonista una donna straordinaria. 

Pa’ Salt e il suo lascito

Siamo a Ginevra, in una bellissima villa sul lago, dove un ricco magnate ha vissuto con le sue sei figlia adottive. Pa’ Salt è morto e ora le sorelle si ritrovano di nuovo insieme nella splendida casa di famiglia. Le sorelle sono tutte molto diverse tra loro, ciascuna con caratteristiche distintive e peculiari. Portano i nomi delle stelle delle Pleiadi, la costellazione preferita di Pa’ Salt. Pa’ Salt era un uomo misterioso, di lui non si sa molto, le sorelle stesse non sanno molto di lui. Hanno tuttavia avuto una vita piena di affetto da lui e sono sconvolte dalla sua morte. Le sorelle scoprono che il padre ha lasciato lor in eredità una sfera armillare che porta, incise sui suoi anelli, delle iscrizioni in greco, una per ciascuna sorella, unitamente alle coordinate per andare alla ricerca delle loro origini. 

Perché Pa’ Salt ha scelto proprio quei luoghi per adottare le bambine? E perché proprio loro? Sono tutte domande che al momento rimangono senza risposte, ma che forse, quelle coordinate e la lettera che ciascuna delle sorelle ha ricevuto contribuiranno a dissipare il mistero.

Maia

Maia è la maggiore delle sei sorelle, la prima arrivata ad Atlantis e l’unica ad abitare ancora lì. È bellissima, ma riservata e solitaria e, come tutte le sorelle, è rimasta sconvolta dalla morte del padre. Ma sarà la prima a partire alla ricerca delle sue origini, in un viaggio che la porterà in Brasile, a Rio de Janeiro, tra una vecchia villa fatiscente e la statua del Cristo Redentore. Accompagnata dallo scrittore Floriano Quintelas, Maia cercherà di trovare a sua famiglia d’origine e perché Pa’ Salt l’abbia adottata. 

Ma è soprattutto un viaggio all’interno di se stessa quello che Maia intraprende, per ritrovare la sua vera natura e non lasciare che la paura guidi le sue scelte. Attraverso la storia di Izabela, la sua bisnonna, Maia capirà l’importanza di aprirsi alla vita e alle possibilità che offre, senza farsi sopraffare dalla paura di sbagliare o di soffrire.

Le storie

Come spesso accade nei romanzi della Riley, le storie che si intrecciano sono due, una nel presente, con Maia che va alla ricerca della sua famiglia e della sua storia, e l’altra è quella di Izabela, la bisnonna di Maia, ambientata ai tempi della costruzione della statua del Cristo redentore di Rio. La storia di Izabela è coinvolgente, ben delineata, con personaggi forti e ben caratterizzati, tiene il lettore incollato alle pagine e ha la giusta dose di fascino, suspense ed emozioni. La storia di Maia è invece un po’ più debole, a tratti forse un po’ forzata, ma tutto sommato in grado di tenere in piedi la struttura narrativa. 

La scrittura della Riley è, come sempre, molto fluida e scorrevole e ci accompagna coinvolgendoci per tutto il romanzo. Questa storia lascia tuttavia delle domande ancora senza risposta. Sarà perché dobbiamo leggere anche gli altri libri della serie per scoprirlo?

 

Titolo: Sette sorelle

Titolo originale: Seven Sisters

Autrice: Lucinda Riley

Traduzione: Lisa Maldera

Casa editrice: Giunti editore

Pagine: 560

Tutto chiede salvezza è il secondo romanzo di Daniele Mencarelli, dopo La casa degli sguardi, che aveva ottenuto un ottimo riscontro a parte di pubblico e critica (leggete qui la recensione di Mangialibri se volete saperne di più). Tutto chiede salvezza è un libro duro, ma anche dolce, crudo, ma anche poetico. Uno di quelli che, voglia o non voglia, ti restano attaccati addosso per lungo tempo.

Scherzi della psiche

Daniele ha solo vent’anni quando, in seguito a un’esplosione di rabbia incontrollata, viene sottoposto a un TSO, un trattamento sanitario obbligatorio. Si sveglia in un letto che non è il suo, in una stanza che non è la sua, in un luogo asettico, dalle pareti bianche e dagli odori forti e insopportabili. Un ospedale psichiatrico. Piano piano si rende conto di ciò che è successo, una rabbia incontrollabile scatenata da un’estrema empatia nei confronti delle sofferenze delle persone e una conseguente incapacità di gestire il turbinio di emozioni che questo gli scatena dentro. 

Il TSO dovrebbe essere una misura cautelativa per le menti più fragili, ma leggendo queste pagine viene da chiedersi: cautelativa per chi? È davvero il bene di queste anime fragili e scomposte quello che si cerca di fare all’interno di queste strutture? Tra medici indifferenti e infermieri impauriti, i pazienti devono cercare di sopravvivere in una condizione dove il tempo è diluito e la voglia di scappare è tanta.

Come si fa a detestare così apertamente una persona che si dovrebbe curare?

Daniele è triste, lotta da tutta la vita contro una tristezza che né le droghe né gli psicofarmaci riescono a lenire. Perché questa tristezza è il dolore degli altri che gli si attacca alla pelle e diventa suo. Quella stanza, quel luogo gli fanno solo venire voglia di scappare. Invece rimane, e contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, durante quei sette giorni, in quella camera anonima, di un reparto anonimo di un ospedale psichiatrico travolto dal caldo soffocante di un’estate romana trova delle anime affini alla sua.

Forse, questi uomini con cui sto condividendo la stanza e una settimana della mia vita, nella loro apparenza dimessa, le povere cose di cui dispongono, forse loro, malgrado tutte le differenze visibili e invisibili, sono la cosa più somigliante alla mia vera natura che mi sia mai capitato d’incontrare.

Anime fragili

C’è Gianluca, anima inquieta con in sé una perenne lotta tra la sua parte bianca e quella nera; c’è Alessandro, con gli occhi perennemente sbarrati, a fissare qualcosa che solo lui vede. E poi c’è Madonnina, i cui occhi neri aprono le porte di un baratro che gli porta via l’anima; c’è Giorgio, un energumeno rimasto bambino, la sua mente ferma a quell’unico momento della sua vita. E infine c’è Mario, animo saggio, buono e pacato, con un uccellino come unico amico.

Quello che mi fa piangere è la brace nera che gli consuma gli occhi. Un’angoscia profonda tanto da togliere il fiato. Quale malattia può mettere sulle spalle di un uomo un peso così enorme? Perché il peso che grava sul povero corpo di Madonnina è bestiale, disumano.

Quella che Mencarelli ci racconta è una storia di anime ai margini, travolte dalle emozioni e dalla vita, anime rifiutate che si riconoscono e si accolgono. Accomunati dal disinteresse dei medici e dalla paura di ciò che li attende fuori, si avvicinano, si tengono per mano, si reggono in piedi l’un l’altro, forti e fragili, pazzi e saggi, rozzi e delicati.

Salvezza

La malattia di Daniele, in fondo, si chiama salvezza. 

Salvezza. Per me. Per mia madre all’altro capo del telefono. Per tutti i figli e tutte le madri. E i padri. E tutti i fratelli di tutti i tempi passati e futuri. La mia malattia si chiama salvezza, ma come? A chi dirlo?

Mencarelli ci regala un romanzo poetico e delicato che va dritto al cuore e alla pancia e non può lasciare indifferenti. Perché, certo, è più facile non sapere, o non voler sapere, ci fa sentire più sicuri e ci fa illudere che tutto vada bene. Ma ci sono persone le cui anime spingono per uscire, gridano per essere udite, il cui dolore ha bisogno di essere compreso, non ignorato. Persone che hanno un estremo bisogno di essere accettate per quello che sono (tutti noi in effetti abbiamo questo bisogno) e che hanno bisogno di un aiuto, un aiuto vero, per non essere sopraffatti dalla loro vita. E non si può semplicemente rinchiuderle e far finta che non esistano. Daniele Mencarelli ci conduce con la sua abilità all’interno dei meandri dell’animo umano che chiede salvezza. Non possiamo ignorare questo grido.

 

Titolo: Tutto chiede salvezza

Autore: Daniele Mencarelli

Casa editrice: Mondadori

Pagine: 204

 

Oceano mare è uno dei libri più conosciuti di Alessandro Baricco. Scritto nel 1993 ha fin da subito diviso i lettori, perché Baricco è uno di quegli scrittori che o si ama o si odia. Mi vergognavo un po’ a non aver ancora letto nulla di suo, così ho preso in mano questo racconto onirico popolato da personaggi dalle caratteristiche peculiari. Inizialmente ho faticato ad entrare in questo suo mondo, ma poi ho faticato ad abbandonarlo.

La locanda Almayer

La locanda Almayer è una locanda sul mare, un luogo magico nl quale convergono sette personaggi surreali, ognuno col proprio bagaglio di storie, sofferenze e segreti. E la locanda li accoglie tutti senza chiedere nulla, senza voler sapere cosa li ha portati sin lì. Si tratta di un luogo senza tempo e, a volte si ha l’impressione, senza spazio, nel quale si può godere del potere salvifico del mare e del silenzio. Lo sanno bene i bambini che gestiscono la locanda, contribuendo a renderla un luogo magico. 

In questo luogo strano e bellissimo si incrociano le vite di Plasson, che cerca di dipingere il mare, Bartleboom, che cerca la sua donna e la fine del mare, Elisewin, che cerca un modo e un motivo per sopravvivere, padre Pluche, che cerca la sua strada, Ann Deverià, che cerca se stessa, Adams che cerca vendetta. Tutti in qualche modo legati indissolubilmente al mare e tutti in qualche modo in cerca di guarigione. 

Il mare immenso, l’oceano mare, che infinito corre oltre ogni sguardo, l’immane mare onnipotente – c’è un luogo dive finisce, e un istante – l’immenso mare, un luogo piccolissimo e un istante da nulla 

Il mondo di oceano mare

Con una prosa che sembra poesia Baricco ci trasporta in un mondo onirico, dove non tutto sembra avere senso, un mondo popolato da personaggi diversi tra loro, ma tutti con il mare in comune, quel mare che li salva o li condanna, che custodisce i loro segreti e guarisce le loro ferite. Perché questo fa la locanda Almayer, offre salvezza alle anime tormentate, concede la possibilità i lasciarsi il passato alle spalle e ricominciare. 

Questo romanzo è un sogno e come tutti i sogni è a tratti incomprensibile, popolato di personaggi strani e di bambini che volano dalle finestre, con un filo che ci accompagna per tutto il tempo: l’oceano mare. Quel mare che sommerge, uccide e sovrasta, ma anche che culla, che salva e che guarisce.

Questo romanzo è un viaggio dentro l’anima, un viaggio verso la salvezza o la dannazione, un viaggio per trovarsi o per perdersi. 

Se c’è un luogo, al mondo, in cui puoi pensare di essere nulla, quel luogo è qui. non è più terra, non è ancora mare. non è vita falsa, non è vita vera. È tempo. Tempo che passa. E basta. 

Linguaggio ricercato, continui cambi di registro e uso del flusso di coscienza possono rendere inizialmente difficile questo romanzo, ma se si riesce ad andare avanti si entra in un mondo poetico e delicato che ci rimane addosso per lungo tempo.

 

 

Titolo: Oceano mare

Autore: Alessandro Baricco

Casa editrice: Feltrinelli

Pagine: 224

 

Il buio oltre la siepe è uno di quei libri che ti rimangono attaccati addosso, uno di quei libri che una volta finiti lasciano dentro un vuoto, che non è poi facile riempire. È uno di quei libri che tutti dobbiamo leggere, per renderci conto che, nonostante i diritti umani e una mentalità più aperta, molte cose non sono cambiate poi così tanto, e per diventare ogni giorno un po’ di più Atticus Finch. 

America anni Trenta

Maycomb, Alabama, anni Trenta. Scout Finch è una ragazzina vivace e ribelle che vive con fratello Jem, il padre Atticus e la cuoca Calpurnia in questa sonnolenta città nel sud-est degli Stati Uniti. Accanto a loro vivono i Radley, che incuriosiscono molto Jem, Scout e il loro amico Dill, in quanto segregano in casa il figlio Boo. I ragazzi trascorrono le loro estati insieme all’amico Dill, tra mille giochi all’aperto e tentate incursioni nella casa di Boo Radley.

Le cose cominciano a cambiare quando al padre, avvocato, viene assegnato un caso d’ufficio: difendere Tom Robinson un “negro” accusato di stupro. Questo procurerà molte ripercussioni nella vita dei Finch.

Atticus si dimostra un personaggio fuori dal comune per l’epoca: nell’America convenzionale e bigotta, obnubilata da stereotipi e pregiudizi razziali, Atticus cresce i suoi figli con valori quali l’uguaglianza, il rispetto e la cultura. Desidera che i suoi figli abbiano una cultura e li avvia alla lettura, risponde sempre alle loro domande, insegna loro il rispetto per gli esseri umani a prescindere da stato sociale, religione o colore della pelle. Non gli interessa quello che la gente dice di lui, perché risponde solo alla sua coscienza.

«Questo caso, il caso di Tom Robinson, è qualcosa che tocca la parte più profonda della coscienza di un uomo… Scout, non potrei andare in chiesa e venerare Iddio se non cercassi di aiutare quel ragazzo»

«Quasi tutti sembrano pensare di aver ragione loro, e che tu, invece, abbia torto…»

«Hanno sicuramente il diritto di pensarlo, come noi abbiamo il dovere di rispettare le loro opinioni, ma prima di vivere con gli altri io devo vivere con me stesso. L’unica cosa che non è tenuta a rispettare il volere della maggioranza è la coscienza.»

 

Atticus Finch

È un personaggio così tollerante, così umano. In un’epoca in cui il diverso era sempre additato e giudicato, messo al bando per lo più, lui rivendica l’universalità dell’essere umano in quanto tale. Difende Tom Robinson già sapendo che parte perdente in una società come quella, ma lo fa perché stanno perpetrando un’ingiustizia ai danni di un essere umano che viene giudicato non per ciò che ha compiuto (o non compiuto), ma per il suo aspetto. Quanto è ancora attuale, in un certo senso, questo pregiudizio! Sono persone così che poi aiutano a cambiare la storia, persone che dicono no ai pregiudizi, no alle ingiustizie, no agli stereotipi, no alle ineguaglianze. Mi fa venire in mente Rosa Parks, che proprio pochi anni prima che Harper Lee scrivesse questo libro, proprio in Alabama era stata il motore che aveva messo in moto il processo di abolizione delle leggi razziali. 

La narrazione avviene trent’anni dopo i fatti e attraverso gli occhi di Scout vediamo una società dominata dall’intolleranza e attraverso i suoi occhi sentiamo le conseguenze delle scelte del padre. Scelte difficili, specialmente in una società come quella dell’epoca, in cui essere diversi equivaleva quasi a essere banditi dalla società ed essere “negrofili” era quasi peggio che essere assassini. Ma Atticus non molla.

Negrofilo è solo uno di quei termini che non significano niente: come moccioso. È difficile da spiegare: le persone meschine e ignoranti lo usano quando credono che uno stimi i negri e li preferisca a loro. Hanno cominciato a usarlo per indicare le persone come noi quando hanno bisogno di un epiteto con ci etichettarle.

Ma il finale?

La storia è narrata dal punto di vista di Scout, una bambina ancora libera dai pregiudizi che imperversavano all’epoca, ma allo stesso tempo troppo piccola, forse, per comprendere sino in fondo le ragioni che portano il padre a fare certe scelte. Scelte che sfidano l’opinione comune, la zona di comfort dell’abitudine e del conosciuto, per addentrarsi nel buio dell’ignoto, oltre quella siepe che ci mantiene al sicuro nelle nostre piccole tane, lontani dal diverso e dall’altro.

Il finale de Il buio oltre la siepe è uno dei più belli che io abbia mai letto (ammetto di essere molto difficile in questo, incipit e finali spesso mi deludono, anche in libri che ho molto amato), la perfetta chiusura di un cerchio che avvolge tutta la trama e che vi lascerà stupiti e commossi.

Il titolo italiano di questo romanzo, pur nella bellezza della metafora che evoca, non ha nulla a che vedere con il titolo originale To kill a mockingbird (uccidere un tordo beffeggiatore), titolo rievocato anche dalla bella copertina della versione Feltrinelli. Lascio a voi scoprire che ruolo abbia questo uccellino nella storia e perché uccidere un tordo beffeggiatore sia così significativo.

 

Titolo: Il Buio oltre la Siepe

Titolo originale: To kill a mockingbird

Autrice: Harper lee

Traduzione: Vincenzo Mantovani

Casa editrice: Feltrinelli

Pagine: 350

Il Cacciatore di Aquiloni è un libro triste, che prende lo stomaco, ma è anche un libro che parla di perdono, espiazione e rinascita. Leggendo queste pagine ci viene sì un colpo allo stomaco in più di un’occasione, ma ci rendiamo anche conto che alcuni sentimenti sono davvero universali e che, forse, alla fine, ci si può perdonare. 

Hassan: il cacciatore di aquiloni 

Amir e Hassan sono cresciuti insieme in una Kabul benestante e allegra, prima che le vicende di questo secolo la trasformassero in una polveriera pronta ad esplodere in ogni attimo, in un cimitero di polvere, ossa e miseria. Amir e Hassan godono dei privilegi di stare in una grande casa con giardino. Hassan però è un hazara, è un servo ed è molto devoto ad Amir, il quale, invece, nutre sentimenti contrastanti. Ama Hassan, ma è vittima della continua ricerca di affetto del padre, unico genitore che sembra avere quasi una predilezione per il piccolo Hassan, viso rotondo, occhi buoni e labbro leporino.

I due amici crescono a suon di gare di aquiloni ( e Hassan è il miglior cacciatore di aquiloni di tutta Kabul), ma è proprio durante una di queste che accade qualcosa che rimarrà per sempre impresso nei loro cuori, qualcosa che scolpirà per sempre nel cuore di Amir quel senso di vergogna e di colpa che lo porteranno ad azioni dalle quali difficilmente si potrà tornare indietro.

La forza del perdono

“Esiste un modo per tornare a essere buoni” gli dirà molti anni dopo Rahim Khan amico e socio del padre. E Amir verrà catapultato in un attimo in quell’estate degli anni Settanta a Kabul, a quel giorno che mai dimenticherà, a quel viso che da allora si è impresso nel suo cuore per sempre, insieme al senso di colpa e al rimorso.

Questo libro è un viaggio, un viaggio attraverso l’Afghanistan e il Pakistan, ma anche un viaggio attraverso la colpa, il dolore, il rimorso, l’espiazione, un viaggio verso il perdono.

Mi chiesi se quello fosse il modo in cui sboccia il perdono, non con le fanfare di una epifania, ma con il dolore che, nel cuore della notte, fa i bagagli e si allontana senza neppure avvisare.

Forse tutti siamo o siamo stati un po’ Amir, tutti ci siamo ritrovati prima o poi a fare i conti con il nostro passato, magari un po’ scomodo, con qualche errore commesso, con la voglia di far tornare indietro le lancette e fare le cose in maniera diversa. Ma non si può, quello che si può fare è perdonare e perdonarsi. Saprà Amir intraprendere questo viaggio? Saprà affrontare ciò che troverà nel suo cammino?

Questo splendido romanzo di Khaled Hosseini ci dimostra che, forse, non tutto è perduto e che ci può essere una via d’uscita.

 E io ritengo che si sia vera redenzione solo quando la colpa spinge a fare del bene

Un romanzo da leggere col cuore 

Hosseini ci regala un romanzo emozionante, ci coinvolge con la sua scrittura calda e trascinante e ci regala una storia a tratti commovente, sullo sfondo di un Afghanistan che piano piano si consegna nelle mani dei suoi carnefici, assistendo impotente alla sua stessa distruzione. Un romanzo scritto col cuore e che cuore va letto, lasciandoci coinvolgere e trascinare dalla storia di un’amicizia che è anche un viaggio alla riscoperta di sé.

 

Titolo: Il cacciatore di aquiloni

Titolo originale: The Kite Runner

Autore: Khaled Hosseini

Traduzione: Isabella Vaj

Casa editrice: Piemme

Pagine: 390 

Ultimamente sono venuta a contatto con libri di scrittori emergenti e ne ho avuto esperienze di lettura varie: fatica, in alcuni casi, delusione in altri, ma ci sono state anche delle belle sorprese.

Vi presento in questo articolo due scrittori (anzi tre per dire il vero) che penso meritino attenzione.

La diciottesima

Titolo: La Diciottesima

Autori: Nicoletta Riato, Andrea Delía

Casa editrice: pubblicazione indipendente

Pagine: 102

Teramo, 1776. Emma è stata costretta a entrare in un piccolo convento quando aveva solo 13 anni ufficialmente a causa del suo comportamento poco consono, in verità perché ha visto qualcosa che non avrebbe dovuto vedere. 

Nel convento ci sono solo 17 monache, lei è la diciottesima e tale rimarrà sempre per le sue consorelle, che mai la chiameranno per nome, per loro sarà sempre la Diciottesima. Né mai la considereranno davvero parte integrante del monastero, in fono è lì per espiare le sue colpe e redimersi. 

 

 

Emma è vivace, intelligente e curiosa e proprio queste sue caratteristiche le attirano le simpatie di Donna Cassandra, con cui instaura un rapporto di tenera amicizia e di scambio intellettuale. Sarà lei a far entrare Emma in un gruppo di intellettuali che porta avanti le nuove idee illuministe, sarà lei a dare a Emma modo di nutrire la sua curiosità intellettuale. È una ragazza alla ricerca del suo posto nel mondo, della sua libertà e Donna Cassandra è come acqua che disseta per lei.

Il passato ritorna sotto forma di un prete con sei dita

Ben presto, tuttavia, si ripresenta ad Emma un fantasma del suo passato, un diavolo con sei dita che farà di tutto per proteggere il suo segreto. Emma è in pericolo, ma come fare ad uscire da una situazione che la perseguita da quel giorno di dieci ani prima?

Scritto con uno stile fresco e scorrevole, ambientato in un periodo storico denso di idee nuove e di cambiamenti sociali, descrive perfettamente il clima politico, intellettuale e sociale dell’epoca, senza risultare in alcun modo pesante o ridondante.

L’unica pecca di questo romanzo? Finisce troppo presto. Mi sarebbe piaciuto veder sviluppata di più la storia del gruppo segreto di intellettuali e anche le vicende di Emma le avrei volute approfondite di più, soprattutto nella sua crescita psicologica.

Gli autori comunque mi hanno convinto e leggerò anche L’incanto del silenzio (clicca qui per saperne di più). 

Senza moscioli né pistole

Titolo: Senza moscioli né pistole

Autore: Marco Apolloni

Casa editrice: Fanucci

Pagine: 304

Tarcisio Muzzo è un investigatore privato con un passato difficile e un presente fatto di lunghe giornate trascorse nell’attesa di un caso alla Magnum P.I. I casi che arrivano sul suo tavolo sono però di ben altra natura: mariti adulteri o adolescenti disagiati. Nulla a che vedere con i casi del suo idolo. Come può essere finito così a 39 anni, dopo un brillante inizio di carriera nei carabinieri?

Tarcisio è uno a cui la vita non ha regalato molto e tra serate al night club e grandi mangiate di pesce, cerca di trovare il bandolo della matassa e capire in quale momento la sua vita gli è sfuggita di mano.

 

Finché nel suo ufficio un giorno entra Elettra Bonanni. 

Da questo momento in poi Tarcisio inizierà una vera e propria investigazione che lo porterà lungo le bellezza della Riviera del Conero alla ricerca di un possibile assassino. Elettra diventa la sua (improbabile) assistente e insieme cercheranno di venire a capo di una situazione che si dimostra via via sempre più complessa e che avrà un risvolto inaspettato.

Apolloni ha uno stile scorrevole, molto colloquiale e molto “scrivo-come-parlo” e pur non essendo io un’amante di questo genere di scrittura (cosa ci posso fare, mi piace perdermi nella bella scrittura!), devo ammettere che c’è del talento in questo romanzo e che l’ho letto con molto piacere. I personaggi sono ben delineati e caratterizzati e la trama è coinvolgente al punto giusto, con una buona dose di indagine dell’animo umano. 

 

Alla fine ho compiuto l’impresa: sono riuscita a leggere la saga del signore degli anelli (Lo Hobbit  e i tre libri de Il Signore degli Anelli). Da molto i libri mi occhieggiavano dalla libreria, ma non avevo mai avuto il coraggio di affrontarli. Quest’anno ce l’ho fatta grazie a un piccolo gruppo di lettura con altre ragazze, che mi hanno aiutato a non mollare, ed ora sono qui a raccontarvi la mia esperienza con Tolkien.

Lo Hobbit

Titolo: Lo Hobbit

Titolo originale: The Hobbit or There and Back Again

Autore: J.R.R. Tolkien

Traduzione: Caterina Ciuferri in collaborazione con Paolo Paron per la Società Tolkieniana Italiana

Illustrazioni: Alan Lee

Casa Editrice: Bompiani

Pagine: 417

Lo Hobbit è la storia che precede quella a noi ben nota di Frodo Baggins e dei suoi amici ed è stato pubblicato nel 1937. Questo libro è nato come fiaba per bambini e questo spiega lo stile diverso da quello della successiva trilogia. Il protagonista è Bilbo Baggins, un piccolo hobbit che abita nella Contea, personaggio senz’altro noto anche a chi non avesse letto questo libro. 

 

Gli hobbit sono (o erano) gente piccola, alta all’incirca la metà di noi, e più bassa dei barbuti nani. Gli hobbit non hanno barba. In loro c’è poco o niente di magico, a parte quella magia di tipo comune e quotidiano che li aiuta a sparire silenziosi e rapidi quando persone ingombranti e stupide come me e voi gli capitano intorno, con un rumore da elefante che essi sono in grado di sentire a un miglio di distanza.

Questa è dunque la storia del piccolo hobbit Bilbo Baggins che lascia la pace della Contea per intraprendere un viaggio insieme a Gandalf lo stregone e 13 nani, attraverso Bosco Tetro e le Terre Selvagge per arrivare fino alla Montagna Solitaria e al palazzo che il potente drago Smaug ha rubato ai nani, insieme a tutti i loro tesori. 

L’Anello

Durante una brutta avventura con gli orchi, Bilbo trova per caso un anello che poi scopre, suo malgrado, appartenere a una terribile creatura che gli amanti di Tolkien conoscono molto bene: Gollum. L’incontro tra i due è una parte molto interessante del libro. 

Non senza avventure e pericoli, la compagnia arriva alla fetida tana del drago, ma come fare ora ad uccidere la bestia e a reimpossessarsi del tesoro che appartiene alla stirpe di Thorin Scudodiquercia? 

Bilbo e i suoi amici nani ne vedono delle belle in quest’avventura narrata con stile scorrevole e favolistico, ma che forse proprio per questo non mi ha catturata fino in fondo, è una bella favola, ma non il tipo di lettura che mi fa affezionare.

Il Signore degli anelli: La compagnia dell’anello

 

Titolo: La Compagnia dell’Anello

Titolo originale: The Fellowship of the Ring

Autore: J.R.R. Tolkien

Traduzione: Ottavio Fatica

Illustrazioni: Alan Lee

Casa editrice: Bompiani

Pagine: 704

Sono passati molti anni dalle avventure di Bilbo Baggins e dei nani e Bilbo è ormai arrivato alla veneranda età di 111 anni. Tuttavia, non si dica che è vecchio, perchè è ancora molto arzillo, tanto da organizzare un’enorme festa di compleanno nella sua casa per tutta la Contea. Durante la festa (che è anche la festa del nipote ed erede di Bilbo, Frodo Baggins), Bilbo decide di andarsene per sempre e di lasciare tutto a Frodo, compreso l’Anello. 

Dopo la partenza di Bilbo, Frodo viene a sapere da Gandalf il Grigio che quello è  un anello potentissimo che appartiene niente di meno che a Sauron il Grande, l’Oscuro Signore. Si tratta di un nemico estremamente potente che ora rivuole il suo Anello e per averlo è disposto a tutto. Frodo non può più rimanere nella Contea, deve partire per una missione che, forse, è più grande di lui. 

C’è una sola strada: trovare la Voragine del Fato, negli abissi dell’Orodruin, la Montagna di Fuoco, e lanciarvi l’Anello, se desideri effettivamente distruggerlo ed impedire per sempre al Nemico di impadronirsene.

Dopo svariate (dis)avventure i nostri quattro hobbit (Frodo e il suo fedele giardiniere Samvise Gangee, insieme agli inseparabili Meriadoc Brandibuck detto Merry e Peregrino Tuc detto Pipino) arrivano a Brea, alla locanda del Puledro Impennato, dove incontrano Grampasso, un tipo losco, di cui però provano a fidarsi.  Da questo punto in poi le cose si movimentano un po’, tra l’attacco dei Cavalieri Neri e quello degli Orchi a Moria.

Ma che fine ha fatto Gandalf?

Ognuno aveva sentito che gli veniva offerta una scelta fra un’ombra piena di terrore e che l’attendeva, e qualcosa che desiderava intensamente: vedeva chiaro innanzi agli occhi quel suo desiderio, e perché si avverasse bastava ch’egli lasciasse la via ed abbandonasse la Missione e la guerra contro Sauron in altre mani.

La compagnia parte

Da Gran Burrone, dimora di Elrond, parte la compagnia dell’Anello, capitanata da Gandalf il Grigio e composta da altri otto membri: oltre a  Frodo, portatore dell’Anello, Sam, Merry e Pipino ci sono AragornGrampasso, Boromir,  forte e possente uomo di Gondor, il nano Gimli, figlio di Gloin e l’elfo Legolas. La Missione di cui sono stati investiti è quella di distruggere per sempre l’Anello del Potere e impedire così a Sauron di regnare con il male nel mondo. 

Il Signore degli Anelli: Le due torri

 

Titolo: Le Due Torri

Titolo originale: The Two Towers

Autore: J.R.R. Tolkien

Traduzione: Ottavio Fatica

Illustrazioni: Alan Lee

Casa editrice: Bompiani

Pagine: 592

La Compagnia si è ora divisa, Frodo e Sam stanno andando verso Mordor da soli, mentre Aragorn, Legolas e Gimli stanno seguendo Merry e Pipino, con qualche sorpresa. 

Dall’altra parte, Frodo e Sam sono alle prese con Gollum-Smeagol e con tutti i problemi e le difficoltà creati dall’avvicinamento a Mordor. 

La viscida creatura sta guidando i due hobbit verso Mordor, ma la via è irta di pericoli e ad ogni angolo possono spuntare nemici. Inoltre, l’Anello sta diventando un fardello pesante per Frodo.

L’Occhio: la crescente orribile sensazione di una volontà ostile che si sforzava con tutta la sua potenza di penetrare ogni minima ombra di nube, di terra, di carne, per vederlo: per immobilizzarlo sotto il suo sguardo micidiale, nudo inamovibile. Quanto fini, quanto fragili e fini erano ormai i veli che lo proteggevano! Frodo sapeva esattamente dove si trovava il cuore di quella volontà; lo poteva dire con la certezza di chi ad occhi chiusi indica la direzione del sole. Era di fronte a lui, e ne sentiva la potenza martellare sulla propria fronte.

Io ve lo dico e non odiatemi: ad un certo punto ho perfino iniziato a simpatizzare con Gollum! Creatura disgraziata, sempre maltrattata, strisciante, di cui nessuno si fida. Che ci volete fare, ho il cuore tenero! 

Le avventure del resto della compagnia li portano a Rohan, ma il giorno della grande battaglia contro l’esercito di Sauron si sta avvicinando e bisogna essere preparati.

Il Signore degli Anelli: Il Ritorno del Re

 

Titolo: Il Ritorno del Re

Titolo originale: The Return of the King

Autore: J.R.R. Tolkien

Traduzione: Ottavio Fatica

Illustrazioni: Alan Lee

Casa editrice: Bompiani

Pagine: 700

Siamo giunti alla parte più dura di tutto il viaggio, mentre Frodo e Sam tentano, tra mille difficoltà e mille pericoli, di raggiungere il Monte Fato per distruggere l’Anello, il resto della compagnia si divide ulteriormente. Devo confessare che ad un certo punto ho faticato a mantenere il passo con la storia, faticavo a ricordare chi era dove. 

Ad ogni modo, questo è il  libro delle grandi battaglie contro gli eserciti di Sauron e la narrazione si fa più veloce e serrata, tutti stanno convergendo verso la grande battaglia finale. Ce la farà Frodo a distruggere l’Anello? Quell’Anello diventato oramai un fardello pesantissimo da portare e un pericolo per la sua lucidità mentale. 

Se egli lo riconquista, il vostro valore è vano e la sua vittoria sarà rapida e totale, così totale che nessuno può prevederne le conseguenze sin tanto che il mondo durerà. Se invece l’Anello viene distrutto, egli soccomberà, cadendo tanto in basso che nessuno potrà prevedere che si rialzi. Perché avrà perduto la parte migliore della forza insita in lui alle origini, e tutto ciò che fu fatto o cominciato con quella forza cadrà in rovina, ed egli sarà storpiato per sempre, diventando un fantasma di malizia intento a rodersi nell’ombra, incapace di crescere nuovamente e di prendere forma. 

Un classico del fantasy

Non sono un’amante del fantasy e questo non l’ho mai nascosto e forse è questo il motivo per cui non sono riuscita ad apprezzare quest’opera fino in fondo, come, invece, gli amanti del genere presumibilmente hanno fatto. Posso senz’altro capire perché a tante persone sia piaciuto molto e perché qualcuno continui anche a rileggerlo con una certa cadenza. Ho amato le descrizioni di Tolkien perché sembra davvero di essere lì con loro e di vedere ciò che vedono loro. Ho però avuto delle difficoltà con i nomi, soprattutto dei luoghi, ma a volte anche di alcuni personaggi, cosa che mi ha creato qualche rallentamento. 

Il Signore degli Anelli è una bella avventura, con delle piccole perle nascoste qua e là tra le righe, una narrazione scorrevole, ma non veloce, che consiglio senz’altro a chi ama il fantasy (se vi piace il genere è un must).

Non si può parlare de Il Signore degli Anelli senza menzionare i film di Peter Jackson. Chi ha letto il libro e non ha ancora visto i film deve ASSOLUTAMENTE recuperare e guardarli; sono veramente ben fatti, curati e nonostante siano lunghi, non sono mai noiosi. Devo ammettere che forse non li avrei apprezzati così tanto e forse non li avrei nemmeno compresi fino in fondo se non avessi letto il libro, ma avendolo fatto è stato un vero piacere guardarli e ve li consiglio vivamente. Piccola confessione: mi sa che mi sono piaciuti più i film che i libri!